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MERAVIGLIOSA PROGETTAZIONE DEGLI ORGANISMI VIVENTI

Ultimo Aggiornamento: 12/10/2021 16:14
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16/07/2013 18:07
 
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La complessità fondamentale della vita

Di Michele Forastiere

Interattoma 

 

Il paradosso di Levinthal dell’interattoma e le sue conseguenze sulla biologia evolutiva

 

 

Le proteine sono le molecole tuttofare della vita, veri e propri nanostrumenti capaci di svolgere le funzioni più svariate. Sono oggetti dalle molteplici forme, raggruppabili in tre grandi classi: le proteine globulari, più o meno sferiche, come l’emoglobina; le proteine fibrose, dalla struttura filamentosa, come la cheratina; infine, le proteine di membrana, dalla geometria dipendente dalla funzione svolta (per esempio, regolare il passaggio di ioni attraverso la membrana cellulare).

 

La maggior parte delle attività delle cellule di ogni organismo vivente viene eseguita da proteine che interagiscono tra loro e con altre molecole organiche del nucleo, del citoplasma e della membrana cellulare. Di solito si tratta di interazioni complesse, che prevedono una successione di passi esattamente scandita e regolata, sia nel tempo sia nello spazio. Si pensi, ad esempio, all’interazione fondamentale: la sintesi proteica. Si tratta di un meccanismo complicato che prevede, a grandi linee, prima la trascrizione del gene codificante una data proteina inRNA messenger (mRNA) all’interno del nucleo, poi la traduzione del codice mediante il montaggio sequenziale – all’interno dei ribosomi – delle molecole di amminoacidi trasportate dall’RNA transfer (tRNA), infine la ripiegatura della lunga catena peptidica nella forma finale della proteina (la cosiddetta conformazione nativa).

 

Tutte le operazioni che coinvolgono molecole organiche dipendono,ovviamente, dalle specifiche interazioni chimiche che avvengono tra di loro. Dal punto di vista della fisica queste ultime sono semplicemente la manifestazione di interazioni elettromagnetiche tra le nuvole elettroniche degli atomi coinvolti. In pratica, le molecole organiche si combinano tra di loro, si “smontano” e si “rimontano” in configurazioni diverse grazie al fatto che la loro superficie esterna – quella che rappresenta l’interfaccia della molecola con l’ambiente – costituisce un “paesaggio” composito di zone, diverse per forma e dimensione, con densità di carica elettrica differente. In tal modo una proteina può agganciarne un’altra in una specifica direzione e (per esempio) formare un aggregato di forma allungata, come nelle fibre di cheratina; oppure può trattenere una molecola di ossigeno, per poi rilasciarla al momento opportuno; e via dicendo.

 

È evidente, dunque, che la funzione di una proteina è determinata in maniera essenziale dalla “mappa” di densità elettronica sulla sua superficie esterna, che a sua volta dipende tanto dalla sua struttura primaria (la sequenza di amminoacidi – ovvero residui – che la costituiscono), quanto dalla sua struttura secondaria e terziaria (l’esatta configurazione tridimensionale di tutti i suoi atomi). Secondo l’ipotesi termodinamica (nota anche come dogma di Anfinsen ) la conformazione nativa della proteina è determinata univocamente dalla sequenza degli amminoacidi costituenti. In pratica, nelle condizioni ambientali in cui la proteina viene sintetizzata, la conformazione nativa corrisponde a un minimo unicostabile e accessibiledell’energia libera. Quindi, la forma finale è una configurazione di equilibrio stabile dal punto di vista termodinamico, che viene raggiunta spontaneamente nella biosintesi proteica (vale a dire, nel corso dell’assemblaggio della proteina all’interno di una cellula vivente).

 

Questa considerazione non risolve, però, il cosiddetto problema del ripiegamento: in che modo una proteina raggiunge la sua forma funzionale, partendo dalla catena di amminoacidi sintetizzata nei ribosomi? Il fatto è che se il ripiegamento dovesse avvenire mediante un processo di “ricerca casuale” – per agitazione termica – del minimo globale di energia libera, questo richiederebbe un tempo assolutamente irrealistico, molto maggiore di quello trascorso dalla nascita dell’Universo. Vediamo perché.

 

Per ogni legame peptidico sono possibili due diversi angoli di rotazione,ognuno dei quali può dar luogo a tre configurazioni energeticamente stabili. Perciò, una proteina costituita da N residui – quindi con (N – 1) legami peptidici – avrà 2(N – 1) diversi angoli di legame. Dato che ad ognuno di questi corrispondono tre configurazioni stabili, il numero di possibili conformazioni della catena (non equivalenti dal punto di vista dell’energia libera complessiva) sarà di 32(N – 1) = 9N – 1 ≈ 100,95(N – 1) .

Se la proteina dovesse raggiungere la sua conformazione nativa – quella corrispondente al minimo globale di energia libera – mediante un’esplorazione casuale delle varie configurazioni realizzabili, ognuna delle quali avvenisse in un tempo dell’ordine del picosecondo (10–12 secondi), ci vorrebbero più o meno 100,95N – 13 secondi per raggiungere lo scopo. Nel caso di una piccola proteina formata da 100 residui (quindi con N = 100), il tempo richiesto sarebbe dell’ordine di 1082secondi, più o meno 1065  volte l’età dell’Universo! È evidente che c’è qualcosa che non torna: un batterio come l’E. Coli si riproduce ogni 20 minuti, duplicando l’intero insieme delle sue proteine funzionali – gran parte delle quali ben più lunghe di 100 residui – entro quell’intervallo di tempo. Tale contraddizione venne riconosciuta per la prima volta da Cyrus Levinthal nel 1969 (): si tratta di quello che è ormai universalmente noto come “paradosso di Levinthal”.

 

Il problema del ripiegamento si può dunque riformulare in questo modo: come viene selezionato l’unico stato funzionale di una proteina in mezzo a un numero tanto grande di alternative? Secondo Levinthal, la risposta è semplice: il ripiegamento non può che avvenire seguendo percorsi preferenziali; in altre parole, è accelerato e guidato dal rapido instaurarsi di interazioni locali, che a loro volta servono da centri di nucleazione per i passaggi successivi. In pratica, l’assemblaggio delle proteine sarebbe un processo gerarchico, che si verifica in un “paesaggio energetico” a forma di imbuto, analogo al rotolamento di un masso dalla cima di una montagna verso un pozzo situato in una profonda valle.

 

È  evidente che i “canali preferenziali” che guidano il corretto ripiegamento proteico sono messi a disposizione dal processo stesso di biosintesi nella cellula sana, e dipendono dalle giuste condizioni fisico-chimiche – oltre che dall’eventuale presenza di particolari molecole organiche dette chaperone, specificamente adibite a fornire “assistenza” al ripiegamento. Notoriamente, ogni discostamento dalla conformazione nativa produce proteine inattive, spesso tossiche; alcune malattie neuro-degenerative sembrano essere prodotte da proteine mal-ripiegate. Lo “srotolamento” parziale o totale di una proteina, detto denaturazione, è nella maggior parte dei casi irreversibile – indubbiamente a causa del grandissimo numero diconformazioni denaturate, in confronto all’unica nativa.

Al di fuori dell’ambiente cellulare, perciò, la sintesi artificiale di una proteina a partire esclusivamente dai suoi componenti elementari appare ancora un problema tecnicamente arduo.

 

Ora, ritornando a quanto detto all’inizio, il funzionamento di una cellula dipende dall’insieme delle interazioni tra le proteine e tutte le altre molecole, organiche e inorganiche, presenti al suo interno. In particolare, l’attività cellulare è determinata dalla rete completa del suo interattoma, vale a dire dall’insieme di tutte le interazioni fisiche proteina-proteina che possono aver luogo nella cellula. Non è difficile comprendere che il problema dell’assemblaggio dell’interattoma sia analogo a quello del ripiegamento delle proteine, nel senso che in entrambi i casi lo stato funzionale viene selezionato entro un numero astronomicamente alto di alternative non funzionali.

 

I biologi Peter Tompa della Vrije Universiteit di Brussels e George Rose della Johns Hopkins University hanno affrontato la questione della sintesi dell’interattoma in un articolo apparso su Protein Science nel 2011, The Levinthal paradox of the interactome”. La rete dell’interattoma è costituita dall’insieme delle interconnessioni che collegano idealmente le migliaia di componenti cellulari; ogni collegamento corrisponde a un’interazione chimicamente efficace delle molecole coinvolte. Nel caso delle interazioni proteina-proteina, queste avvengono in modo corretto solo se le due (o più) molecole coinvolte presentano la “giusta” distribuzione complementare di carica elettrica e si avvicinano l’una all’altra nella “giusta” direzione – un po’ come una chiave nei confronti di una serratura. Ora, è chiaro che, nel caso di molecole grandi e di forma complicata come le proteine, esistono molte possibilità diverse di interazione, dipendenti dalla geometria del “contatto”.

 

Tompa e Rose forniscono una stima approssimata del numero di possibili schemi di interazione in un interattoma-modello, considerando per semplicità solo interazioni a coppie tra proteine “medie”. L’interattoma esaminato è quello esistente in una particolare fase di crescita del lievito Saccharomyces cerevisiae, con 4500 proteine diverse, lunghe in media 400 residui e presenti in media in 3000 copie ciascuna. Supponendo per semplicità di avere a che fare solo con proteine globulari, gli autori calcolano 3540 interfacce distinguibili in una proteina tipica. Nel caso più semplice, in cui si assume che ognuna delle proteine diverse sia presente in una singola copia, e che tutte le interazioni avvengano a due a due attraverso una singola interfaccia, il numero complessivo di possibili schemi di interazione risulta pari a:

 

La dipendenza da è rapidamente crescente: per = 6 si hanno 15 interazioni possibili, per  = 10 si sale a 945, per = 20 si arriva già a più di 600 milioni… nel caso esaminato, con  = 4500, vi sono ben 107200 possibilità! Questo, però, è ancora niente: se si tiene conto del fatto che vi sono in media 3540 interfacce per ogni proteina, si arriva a 4500 x 3540 ≈ 1.6 x 107  enti distinti in grado di interagire. Ebbene, il numero di interazioni possibili sale adesso allo strabiliante valore di1054 000 000 ! Non è finita qui: considerando che ogni proteina compare in 3000esemplari, più copie della stessa proteina possono essere impegnate in interazioni con controparti diverse allo stesso tempo; si giunge quindi a una stima di1079 000 000 000 distinte configurazioni dell’interattoma. Un numero assolutamente stupefacente.

 

Tompa e Rose osservano che tale straordinaria complessità esclude la possibilità che un interattoma funzionale si formi per tentativi ed errori in un qualsiasi accettabile arco di tempo, e ne traggono la conclusione che l’assemblaggio dell’interattoma debba procedere lungo percorsi preferenziali, anche mediante l’interpretazione di opportuni segnali di “montaggio”. Secondo gli autori, dunque, è evidente che la formazione di un interattoma funzionale necessiterebbe di una rete preesistente di proteine interagenti – vale a dire, dell’interattoma stesso. Prendiamo, per esempio, alcune fasi della biosintesi proteica: la localizzazione dell’mRNAcomporta l’esistenza del citoscheletro, che funge da rete di trasporto; a sua volta, il citoscheletro può essere assemblato correttamente solo se esiste un’organizzazione precedente (come i centri di organizzazione dei microtubuli, MTOC); infine, il trasporto lungo il citoscheletro può verificarsi solo mediante motori proteici, che sono costituiti appunto da proteine precedentemente sintetizzate. Inoltre, tutte le nanomacchine coinvolte richiedono un flusso continuo di energia per funzionare: non è quindi pensabile che il risultato finale del loro lavoro (un interattoma funzionale) possa mantenersi in equilibrio spontaneamente, cioè senza alcun dispendio energetico.

 

In sostanza, nessun interattoma potrebbe auto-organizzarsi spontaneamente a partire dai suoi componenti proteici isolati; al contrario, esso può raggiungere il suo stato funzionale solo “copiando” l’interattoma di una cellula-madre, e mantenere quello stato solo attraverso un continuo dispendio energetico. Senza una rete preesistente di interazioni, una cellula finirebbe per impantanarsi in uno stato caotico non funzionale, incompatibile con la vita. Insomma, secondo Tompa e Rose esiste, tra un interattoma vitale e i suoi componenti isolati – tra vita e non vita – una discontinuità che risulta essere insormontabile, in modo spontaneo, al di fuori dell’ambiente cellulare.

 

Per chiarire meglio il concetto di discontinuità, i due ricercatori individuano tre configurazioni generali (“zone”) di organizzazione del materiale organico.

 

La zona 1, quella dell’ordine o dello stato nativo, corrisponde all’interattoma vitale, in condizioni fisiologiche normali. L’assemblaggio spontaneo è dominante e le trasformazioni sono completamente reversibili.

La zona 2, quella del disordine, viene definita da transizioni reversibili dalla zona 1, dovute a stress, malattie, mutazioni, divisione cellulare, eccetera. La reversibilità qui è minore, ma ogni trasformazione si può invertire con un costo energetico e grazie a una combinazione di percorsi obbligati e molecole assistenti (chaperone).

La zona 3, quella del caos, rappresenta il livello assoluto di disorganizzazione. Le trasformazioni che portano in questa zona non sono reversibili: non esiste alcun meccanismo che permetta di raggiungere da qui la zona 1 in tempi ragionevoli.

 

In altre parole, tra zona 3 e zona 1 esiste una barriera invalicabile, almeno nelle condizioni attualmente esistenti sulla Terra. È evidente, del resto, che la vita deve aver attraversato la zona 3 almeno una volta – all’inizio. Si capisce che qui entriamo in un campo altamente congetturale; possiamo però presumere che gli attuali meccanismi di assemblaggio dell’interattoma riflettano la loro storia evolutiva. Anche nell’ottica della Sintesi estesa (cioè della teoria dell’evoluzione più “prudente” e conservativa) ogni proteina sintetizzata in ogni organismo oggi vivente viene guidata al suo destino nella cellula lungo una strada che è stata forgiata in un’epoca precedente. È nondimeno ovvio che un primo interattoma funzionale, benché primitivo, deve essere esistito in qualche momento del remoto passato, emergendo in qualche modo dalla zona 3 – vale a dire, in assenza di un preesistente interattoma di supporto.

 

Su come debba essere stato l’interattoma  primordiale non sappiamo granché, al momento. Tuttavia, abbiamo al riguardo qualche indicazione da parte degli scienziati premiati con il Nobel per la chimica nel 2009: si deve essere trattato almeno di una triade catalitica costituita da RNA ribosomiale, proteina ribosomiale e tRNA substrato. Dunque, almeno una grande proteina funzionale, non  dissimile da quelle moderne, deve aver attraversato il confine tra zona 3 e zona 1 qualcosa come quattro miliardi di anni fa. Per puro caso? È certamente possibile, sebbene molto improbabile, se si tiene conto del paradosso di Levinthal. La valutazione della probabilità di tale evento, però, si riduce ancora quando si considera che deve essere stato un interattoma completo – seppure primitivo, seppure ridotto all’osso – ad attraversare spontaneamente la barriera tra caos ordine. Una stima di tale probabilità è stata effettuata da Eugene Koonin, e non appare molto incoraggiante.

 D’altro canto, non potrebbe invece essere che una qualche “legge di natura”– vale a dire un aspetto intrinseco della natura, piuttosto che un caso contingente – abbia giocato un ruolo fondamentale nell’origine e nell’evoluzione della vita, comesuggerisce Michael J. Denton?

Non lo sappiamo. Pensiamo, però, che valga davvero la pena di continuare a riflettere sul tema della complessità fondamentale della vita, forse la questione più importante della biologia del XXI secolo.

[Modificato da Credente 16/07/2013 18:08]
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