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Ultimo Aggiornamento: 01/07/2021 13:52
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28/08/2011 15:12
 
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Ratzinger e il Grande Seduttore

di Vittorio Messori

La prova del fuoco fu la prima volta, a Colonia. Dunque, con il vantaggio di giocare in casa? Parla così chi non sa come, nei Laender tedeschi di oggi, sia giudicato un prete bavarese più che ottantenne. Un sopravvissuto, un vecchio superstizioso da tollerare, in attesa che tolga il disturbo. Ma anche nel mondo “papista“, molti erano convinti che le Giornate Mondiali della Gioventù si identificassero con Wojtyla e col suo carisma esplosivo: come poteva raccoglierne l’eredità un riservato professore di teologia? Sappiamo come è andata: masse di giovani ancor più compatte, entusiasmo non solo per l’evento in sé, per la gioia di una vacanza tra tanti coetanei, ma per il Protagonista stesso, per quell’omino tutto bianco, capelli compresi. Vedendo quelle folle clamorose divenire attente e silenziose quando parlava, qualcuno commentò: <<Wotyla lo si guardava, Ratzinger lo si ascolta>>. Un paradosso e, come tale, esagerato. Ma, forse, con un fondo di verità. Comunque fu chiaro: le GMG non sarebbero morte con Giovanni Paolo II, i suoi papaboys (e non solo) lo avevano accolto come successore adeguato. Una convinzione che si riaffermò alla seconda prova, a Sidney, dove la distanza non scoraggiò i giovani né offuscò l’appeal di quel piccolo, grande ottuagenario. E ora Madrid, con il copione di folla e fervore che si ripete. “Merito“ di Joseph Ratzinger tali successi? Si offenderebbe anche solo a pensarlo. Replicherebbe di essere solo un povero strumento, di non essere che il portavoce di Colui che è il Grande Seduttore. D’accordo, l’umiltà va ammirata: ma a noi è lecito aggiungere che l’attrazione del Vangelo deve pur qualcosa anche alla credibilità di chi lo annuncia.

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26/09/2011 22:22
 
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Il costo sociale della pornografia: un “regalo” della secolarizzazione

Una delle conseguenze più concrete della secolarizzazione è senz’altro la difficoltà per molti di riconoscere un significato vero della propria vita e il conseguente disperato desiderio di placare questa insoddisfazione perenne con tentativi anche parziali ed effimeri. Tra questi vi è l’idolatria violenta della sessualità, la cui diretta conseguenza è la pornografia. Non è un caso se alcune star italiane del porno, come Moana Pozzi, Tinto Brass e Cicciolina (tornata agli onori della cronaca recentemente), abbiano scelto di entrare in politica proprio all’interno del Partito Radicale, ottima espressione politica della visione laicista della vita. Con la diffusione di internet, poi, la pornografica è diventata facilmente accessibile a chiunque e dovunque come mai era successo prima: sia il suo consumo che la sua produzione sono infatti in continua espansione.

Tutto ciò contribuisce a fare dell‘industria del porno un business sempre più redditizio che nei soli Stati Uniti muove almeno quattro miliardi di dollari all’anno. Un business che però non è privo di conseguenze. Proprio delle conseguenze sociali della diffusione della pornografia si è occupato recentemente “The Social Costs of Pornography, studio plurale coordinato da diversi istituti di ricerca statunitensi che ha raccolto i lavori di decine di accademici ed esperti di diversi settori: dalla medicina alla psicologia, dalle scienze sociali al diritto, con lo scopo di delineare un quadro a tuttotondo del fenomeno e delle sue conseguenze.

 

DIPENDENZA. La pornografia via internet, si legge nel report dello studio, può ingenerare comportamenti che la letteratura clinica e psicologica non esita a definire dipendenza: «proprio come la dipendenza da alcol, nicotina e altre sostanze. La dipendenza dalla pornografia può diventare persino più patologica» influendo negativamente sulle relazioni sociali dell’utente. La pornografia on line offre infatti un harem senza fine di intrattenimento hard, i suoi consumatori compulsivi finiscono così per iperstimolare il loro sistema emotivo provocando ripercussioni a livello neurologico: «gli uomini che ai loro computer utilizzano assuefatti la pornografia – dice lo psichiatra Norman Doidge – sono sorprendentemente simili ai topi in gabbia [di certi esperimenti scientifici] che premono la leva per ottenere una goccia di dopamina». Il terapista J.C. Manning mette in guardia dal sottovalutare il fenomeno: «coloro che sostengono che la pornografia sia un intrattenimento innocuo, un’espressione sessuale benigna o un aiuto coniugale, evidentemente
non si sono mai seduti in uno studio di un terapista con individui, coppie o famiglie che tremano a causa
dell’effetto devastante di questo materiale»
.

 

IL PIANO INCLINATO. A causa dell’onnipresenza della pornografia, avverte “The Social Costs of
Pornography”
, si assiste oggi ad un fenomeno di saturazione culturale per cui la televisione, le riviste e le canzoni pop contengono regolarmente «immagini, situazioni e testi che una generazione fa sarebbero stati etichettati come “soft porn”». La pornografia desensibilizza i suoi spettatori e di conseguenza muta non solo per quantità ma anche per qualità. I porno-utenti sono infatti portati ad utilizzare un immaginario sempre più hard che una volta avrebbero ritenuto sconvolgente: «i resoconti di chi l’ha visto descrive ciò che ora viene considerato “hard-core” in termini che sbalordirebbero l’immaginazione e scioccherebbero la coscienza di chiunque non sia un utilizzatore
di pornografia hard-core»
, afferma il professor James Stoner.

 

IMMAGINE DELLA DONNA. La cultura pornografica contribuisce in maniera fondamentale a veicolare un’immagine degradante delle donne. Diversi studi accademici hanno mostrato che i ragazzi esposti all’intrattenimento sessualizzato dei media hanno una propensione sensibilmente maggiore a «guardare la donna come un oggetto sessuale» invece che come una persona, mentre l’esposizione abitudinaria alla pornografia può predisporre le adolescenti a comportamenti sessualmente rischiosi. Inoltre «le ragazze esposte alla pornografia hanno più probabilità di essere vittime di violenza sessuale. La normalizzazione della promiscuità porta le adolescenti anche ad un rischio maggiore di contrarre malattie sessualmente trasmissibili».

 

FAMIGLIA. Nel bilancio nascosto dell’industria del porno c’è spazio anche per altre vittime: le famiglie. La scoperta che il partner ricorre alla pornografia ha spesso delle ripercussioni nei rapporti interpersonali: costi psichici, oltre che una maggiore probabilità di rottura dell’equilibrio famigliare. In più, come afferma il terapista Manning, la pornografia «è spesso associata ad attività che minano l’esclusività e la fedeltà coniugale e aumentano il rischio di trasmissione di malattie veneree». Al riguardo, uno studio pubblicato su Social Science Quarterly rivela che tra i clienti delle prostitute i porno-utenti sono quattro volte più numerosi di chi non ricorre all’intrattenimento hard. Lo stesso studio mostra che tra coloro che hanno una relazione extraconiugale è tre volte più probabile trovare un uomo che utilizza pornografia on line, rispetto ad uno che non ne fa uso.

 

BAMBINI E ADOLESCENTI. Non c’è nessun dubbio, afferma la ricerca, sul fatto che oggi bambini ed adolescenti siano esposti alla pornografia come mai era successo prima d’ora. Quest’esposizione risulta particolarmente dannosa per i più piccoli perché è un «modo brutale di essere introdotti alla sessualità» ed è il viatico per comportamenti sessualmente aggressivi. La correlazione pornografia/violenza è ricorrente in diversi studi in materia: alcune ricerche sull’argomento, tra cui una italiana, hanno mostrato che gli adolescenti che utilizzano materiale hard hanno più probabilità di «aver tormentato sessualmente un coetaneo o aver forzato qualcuno ad avere un rapporto sessuale» rispetto ai loro pari che non ricorrono alla pornografia e che la quasi totalità dei giovani sex offenders è stata esposta a materiale a luci rosse durante l’infanzia.

 

PORNOGRAFIA E VIOLENZA. La pornografia, sostiene la psichiatra Mary Anne Layden dell’Università della Pennsylvania, ha la capacità «non solo di insegnare attitudini e comportamenti sociali, ma anche di dare il permesso per metterli in pratica». La legittimazione dell’uso della forza per fini sessuali è considerata dagli studiosi l’influenza più insidiosa della pornografia, soprattutto di quella che ricorre ad un immaginario violento. Tra i sex offenders l’83% degli stupratori e il 67% dei molestatori di minori ha dichiarato di fare uso di materiali hard-core, mentre tra i non-offenders la percentuale scende di molto (29%). Gli studi in materia rivelano che più frequentemente gli uomini usano la pornografia e più violento è il materiale utilizzato, più aumenta la spinta a compiere aggressioni sessuali. «Complessivamente – osserva in conclusione la psichiatra – il corpo della ricerca sulla pornografia rivela una quantità di atteggiamenti e comportamenti negativi che sono connessi al suo uso. La pornografia funziona come un maestro, una legittimazione ed un pulsante di accensione per questi comportamenti negativi. Il danno si riscontra in uomini, donne, bambini e in adulti sia sposati che single. Riguarda comportamenti patologici, comportamenti illegali e alcuni comportamenti che sono sia illegali che patologici».

Maurizio Ravasio

[Modificato da Coordin. 26/09/2011 22:22]
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28/09/2011 11:01
 
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Le nuove solitudini

Ci si può sentire soli in un'epoca come la nostra, in cui la comunicazione sembra essere facilitata da tecnologie sempre più sofisticate? Nell'era di Internet, basta spingere il tasto di un computer per inviare in pochi secondi un'e-mail da Roma a Tokyo, da Londra a Mosca, da Parigi a New York. Un dito della mano è sufficiente per metterci in contatto con il resto del mondo. Eppure, nonostante questo, ci sono molti giovani soli, che non riescono a stabilire un reale rapporto con gli altri.
Agli inizi del terzo millennio, stiamo assistendo alla nascita di tante "nuove solitudini", completamente diverse da quelle che vivevano le precedenti generazioni. Sono forme di disagio tipiche del nostro tempo, frutto delle contraddizioni di un'epoca in cui i rapporti umani diventano sempre più difficili da mantenere.
La prima grande solitudine è figlia del computer. Questo straordinario strumento di lavoro può servire per fare cose meravigliose, ma può anche contribuire a creare nuove "celle di isolamento". E' come un bisturi. Nelle mani di un grande chirurgo può salvare migliaia di vite umane, ma se finisce nelle mani di un pazzo può fare del male ed uccidere.
Tanti giovani trascorrono ore davanti allo schermo di un computer, navigando tra un sito e l'altro o parlando attraverso le "chat", le "mailing list" e i "newsgroup" di Internet.
Apparentemente, sembrano comunicare. Ma bisognerebbe chiedersi: qual è la qualità di questo tipo di comunicazione? Spesso le persone che intervengono nei dialoghi virtuali delle "chat" non sono sincere. Ci sono, ad esempio, uomini che fingono di essere donne e viceversa. Alcuni hanno anche cattive intenzioni ed approfittano dell'ingenuità dei ragazzi.
Il risultato è una comunicazione falsa e mascherata, che rischia di favorire l'isolamento e l'incapacità di sostenere un autentico rapporto con gli altri.
Un'altra "nuova solitudine" è quella del gioco. Oggi, purtroppo, non ci si diverte più come una volta. Nelle grandi metropoli, diventa sempre più rara la dimensione del cortile e della piazza, dove un tempo si praticavano i giochi all'aperto. Erano un'occasione per dialogare, per confrontarsi, per vivere una parentesi di svago rispettando delle regole ben precise. Quindi, erano anche dei momenti fortemente educativi.
Si sta diffondendo, invece, la moda dei videogiochi, che rappresentano un'ulteriore occasione per essere soli. Non ci si confronta più con gli altri, ma semplicemente con i suoni, i rumori, i colori di un avversario virtuale, che appare sullo schermo di un computer.
Tempo fa, un catalogo di videogames ha ospitato una pubblicità molto triste, che diceva: "Butta il secchiello, abbiamo un gioco più bello". Era un invito ad abbandonare i tradizionali giochi del mare, con la paletta e il secchiello, per dedicarsi a quelli elettronici.
E' la morte della creatività. Seguendo questo slogan, i ragazzi dovrebbero abbandonare i castelli di sabbia per restare incollati di fronte alle lotte sanguinarie dei videogames, dove i personaggi buoni si muovono con la stessa violenza dei cattivi.
Anche la televisione può essere fonte di "nuove solitudini". Tanti ragazzi, infatti, hanno il televisore nella loro cameretta e subiscono un vero e proprio bombardamento di messaggi. Dalle trasmissioni che esaltano il mito dell'apparenza, dicendo che la chirurgia estetica è la fonte della vera felicità, ai telegiornali che non fanno più informazione, ma prediligono servizi su fotomodelle e attricette. Senza contare la falsità dei cosiddetti "reality show" e lo squallore di maghi, cartomanti e venditori di amuleti, pronti ad avventarsi come avvoltoi su chi attraversa momenti di difficoltà e sofferenza.
Quando si è soli, purtroppo, è facile essere indottrinati e strumentalizzati da programmi diseducativi. Si diventa prede di emittenti televisive senza scrupoli, il cui unico obiettivo è aumentare l'audience e sparare spot pubblicitari a ripetizione.
Un'altra solitudine significativa è quella della discoteca. Molti ragazzi trascorrono il fine settimana nei locali da ballo, illudendosi di trovare un contatto con gli altri. Ma poi, la musica è talmente assordante da ostacolare qualunque tipo di dialogo.
Di conseguenza, le discoteche si trasformano in un insieme di giovani soli che ballano. Ognuno è rinchiuso nel proprio guscio di mutismo e di incomunicabilità, mentre le luci psichedeliche impediscono di guardarsi realmente negli occhi.
Ma la solitudine più preoccupante è quella generata dal dilagante ateismo. Con la scusa del cosiddetto "Stato laico" si tende a creare sempre di più una società senza Dio, dominata dal qualunquismo e dal relativismo morale.
In Italia, ultimamente, è scoppiata una polemica per la presenza del crocifisso sui muri delle scuole. In Francia, addirittura, è stata avanzata una proposta di legge per vietare l'uso di simboli religiosi "troppo visibili".Il pericolo, per i giovani, è quello di ritrovarsi soli in un mondo sempre più materialista, privato di quel rapporto di filiazione divina che può rappresentare "una marcia in più" nei momenti di difficoltà. Chi sa di essere figlio di Dio non può mai sentirsi abbandonato di fronte ai propri problemi.
Oggi, dunque, sono tante le occasioni di solitudine che rischiano di oscurare l'animo dei ragazzi. Che cosa si può fare per cambiare rotta e combattere questo fenomeno?
Prima di tutto, è necessario educare i giovani a sviluppare un maggiore senso critico nei confronti dei mezzi di comunicazione. Bisogna abituare i ragazzi a non subire in modo passivo i messaggi che ricevono dalla televisione.
Poi, è necessario recuperare la tradizione dell'autentico stare insieme nei momenti di divertimento. Basta con le discoteche che impediscono la comunicazione! I gestori dei locali dovrebbero creare ambienti più favorevoli al dialogo. Potrebbero limitare il volume della musica e proporre giochi e balli di gruppo, che aiutino maggiormente a socializzare.
Infine, si dovrebbe evitare la presenza ossessiva di fronte allo schermo del computer.Per sfuggire a questo mondo ingannevole di rapporti virtuali, nasce spontaneo un imperativo: ritrovare i volti. Bisogna uscire di casa ed imparare ad incontrare gli altri. Gli altri veri. Non quelli falsi, mascherati, che si nascondono dietro la barriera di uno schermo.
La vera soluzione al problema della solitudine non sta in una notte trascorsa a "chattare" su Internet o in un sabato sera perduto nel rumore di un'assordante discoteca. Non sta neppure nei ripetitivi combattimenti dei videogiochi o nell'adorazione di qualche "velina" che ci sorride in modo forzato dal televisore. Sta nella porta di casa che si apre e che diventa, finalmente, un ponte verso la vita.
Ci sono tantissimi ambienti pronti ad accogliere i giovani con un sorriso vero, umano, non virtuale. Ad esempio, quelli del volontariato. Tanti ragazzi, invece di diventare schiavi delle "nuove solitudini", hanno voluto dare un senso alla loro esistenza, offrendo alcune ore della propria giornata all'aiuto di poveri, anziani, malati, emarginati.
C'è anche chi ha rinunciato alla solita vacanza al mare per fare un'esperienza diversa, più costruttiva, al fianco di missionari in Africa o in America Latina. Sarà tornato un po' meno abbronzato, ma tanto "ricco" e cresciuto nell'anima.
Insomma, la solitudine non è un male incurabile. La migliore medicina bisogna cercarla nel nostro cuore, aiutandolo ad essere un po' meno egoista e conformista, in un mondo che ci tende la mano ed ha un infinito bisogno d'amore
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09/10/2011 10:11
 
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Ora basta! Jobs non era il Messia!

Posted: 08 Oct 2011 12:03 AM PDT

E’ nata una nuova religione: la Chiesa catodica. Che non rivela il senso della vita, ma vi priva del senso del ridicolo. Questa chiesa si è scelta come suo (involontario) messia (provvisorio, in base ai gusti del mercato) il povero Steve Jobs. A sua insaputa.

I suoi celebranti, prosternati e adoranti, sono giornalisti, intellettuali, vip di ogni genere, politici e opinionisti. I quali, non credendo più a Dio, non è che non credano in nulla, ma – come diceva Chesterton – credono a tutto.

Si sono convinti perfino che Jobs sia il messia: colui che “ha cambiato il mondo”.

D’altra parte nei decenni scorsi intellettuali, politici e giornalisti avevano acclamato come “salvatori dell’umanità” dei sanguinari tiranni, che avevano milioni di vittime sulla coscienza, quindi con quelli di oggi in fondo c’è un miglioramento: il buon Jobs non mai fatto male a nessuno.

Ha semplicemente dato sfogo alla sua inventiva, producendo tanti aggeggi elettronici, diventando un grosso industriale e accumulando un patrimonio enorme. La sua attività di industriale però non può spiegare lo stupefacente spettacolo di queste ore.

I tg che aprono su Jobs e occupano mezzo telegiornale, tutte le catene televisive del mondo che celebrano il defunto con tonnellate di incenso, come una divinità dei nostri tempi e poi i programmi della serata che inneggiano al “grande”, a colui che ha “realizzato il sogno dell’umanità”.

Un telegiornale ieri titolava: ““E ora? Come sarà il mondo senza di lui?”. Tranquilli: sarà esattamente come prima. Se l’umanità ha superato perfino la scomparsa dell’inventore della lavatrice, ce la farà anche stavolta.

Solo che della morte dell’inventore della lavatrice nessuno ha nemmeno dato notizia. Per la morte di Jobs invece siamo stati alluvionati dalle “lacrime” mediatiche.

Come si spiega? Si dice: la sua tecnologia ha cambiato le nostre abitudini. Bene. C’è qualcuno che conosce padre Eugenio Barsanti e Felice Matteucci? Non credo. Nemmeno fra giornalisti e intellettuali.

Eppure hanno cambiato la vita dell’umanità forse anche più di Jobs: hanno infatti inventato e brevettato il primo motore a scoppio. Auto, moto e quant’altro vengono da lì.

Scusate se è poco: senza di loro andremmo ancora a piedi, o in bicicletta. Ma restano del tutto sconosciuti (neanche noi italiani – loro connazionali – li riconosciamo come esempio di ingegno nostrano).

Volete un altro esempio proprio nel campo dei computer e di internet? Bene. C’è un tizio che – secondo me – è stato molto più  decisivo di Jobs nel rivoluzionare i nostri modi di vivere e – sorpresa! – è un italiano.

Solo che nessuno lo conosce. Almeno in Italia, perché in America lo conoscono benissimo: si chiama Federico Faggin e il 19 ottobre 2010 ha ricevuto dalle mani di Barack Obama il più alto riconoscimento americano in campo scientifico, la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione.

E’ a lui che si deve il progetto del primo microprocessore, cioè quella cosina minuscola che fa funzionare tutti i nostri computer e tutti i congegni elettronici.

Credo si possa dire che senza quest’invenzione non ci sarebbero né Internet, né Jobs, né Bill Gates, né Google, né Facebook, perché non ci sarebbero nemmeno i personal computer e gli smart phone. E tante altre cose.

Ma in Italia resta uno sconosciuto. Non ricordo di aver mai letto un articolo su di lui (tanto meno in prima pagina) o di aver visto un programma tv che mostrasse questo vanto del genio italiano.

Un altro caso. Qualcuno conosce il dottore Albert Bruce Sabin? Molto pochi. Eppure è colui che ha realizzato il vaccino antipolio che ha liberato l’umanità (e anche il popolo italiano) dalla terribile poliomielite.

Ebbene Sabin, che poteva diventare miliardario con la sua scoperta, non ne ricavò neanche un dollaro. Rinunciò infatti a brevettarla e a sfruttarla in senso commerciale perché il prezzo del vaccino fosse alla portata di tutti.

Disse: “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”.

Sabin era ebreo e aveva avuto due nipotine uccise dalle SS: nel suo cuore c’erano i tanti innocenti che soffrivano ingiustamente. Non vi sembra un grande? Non vi pare che abbia fatto una cosa immensa per l’umanità?

Eppure alla sua morte, nel 1993, non si sono fatte paginate di giornali. Né editoriali dove si diceva che era un uomo che aveva cambiato il mondo.

Potrei continuare con gli esempi. Ce ne sarebbero tanti. E tutti dimostrerebbero che non si spiega l’enfasi mitologica dei media, i titoli messianici e queste ovazioni planetarie per Jobs.

Il Corriere della sera, per fare solo un esempio, ha dedicato – oltre all’apertura di prima pagina – otto pagine (ripeto: otto!) al decesso, peraltro annunciatissimo di Jobs. Non ha esitato – il “Corriere” – nemmeno a titolare: “A Cupertino come da Madre Teresa”.

E, per non farci mancare niente, ha affidato l’editoriale a Beppe Severgnini il quale ha occupato la prima pagina del quotidiano milanese per dare al mondo due fondamentali notizie: 1) “il primo portatile l’ho acquistato vent’anni fa in California” (e chi se ne frega!); 2) “il (mio) primo computer è stato un Macintosh: ci ho scritto il primo libro” (cosa che potrebbe gravare sulla coscienza di Jobs come un macigno).

Perfino i giornali di sinistra hanno partecipato alla devota processione con i turiboli per la mitizzazione di Jobs, sebbene sia un simbolo del grande capitalismo. “Il Manifesto” gli ha dedicato l’apertura e un editoriale laudatorio intitolato: “Un borghese rivoluzionario”.

E un altro titolo che (letto su un giornale comunista) fa un po’ ridere: “Il morso dell’utopia”. Di questo passo rischiano di mitizzare pure Berlusconi.

Anche “Avvenire” – il giornale dei vescovi – ha dedicato a Jobs un articolo (con foto) in prima e all’interno addirittura quattro pagine. Che francamente lasciano un po’ perplessi considerato che ci sono tantissimi missionari che donano la loro vita intera, fin da giovani, per assistere i più diseredati della terra, in condizioni durissime (ho presente certi lebbrosari africani) e la loro morte non è segnalata da nessuno, nemmeno sulla stampa cattolica.

Eppure credo che potrebbero testimoniare qualcosa, sulla vita e sulla morte. Penso che loro siano dei veri maestri. E la loro vita potrebbe essere più interessante e istruttiva della vicenda professionale di Jobs che in fin dei conti viene magnificato per delle massime che trasudano una certa banalità.

Sentite queste: “nella vita tutto serve”, “bisogna credere in qualcosa”, “quando la vita vi colpisce con una bastonata non scoraggiatevi”, “nessuno vuole morire, ma alla morte nessuno è mai sfuggito”.

Non c’era bisogno di Jobs: questi pensieri li abbiamo già sentiti tutti da nostra nonna. Decantare queste parole come perle filosofiche rischia di farci finire nell’assurdo o nel ridicolo.

Jobs è un uomo del nostro tempo. E’ stato un bravo inventore e un industriale di grande talento. Anche un tipo simpatico e tosto, per come ha vissuto la malattia. Ma, sinceramente, non mi pare uno che ha rivoluzionato la storia umana. Nemmeno un filosofo.

Le sole due frasi suggestive da lui pronunciate nel famoso discorso di Stanford non sono sue: sono citazioni (e lui peraltro lo dice esplicitamente). Eppure vengono evocate come massime del mito Jobs.

“Continuate ad aver fame. Continuate ad essere folli” è una frase del “Whole Earth Catalog” di Steward Brand. Mentre “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” è un pensiero della spiritualità monastica cristiana che Jobs lesse a 17 anni in forma di battuta umoristica:  “Se vivrete ogni giorno come se fosse l’ultimo, un giorno sicuramente avrete avuto ragione”.   

Jobs è stato semplicemente un creativo e un grosso industriale. Non facciamone il messia. E non inventiamo miti per coprire il nostro vuoto. Credo che lui stesso, che continuava a vestire jeans e girocollo, avrebbe trovato assurda questa enfasi messianica planetaria.

Antonio Socci

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17/10/2011 23:20
 
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Confusione da Todi

Il Corriere della sera è stato folgorato sulla via di Bagnasco? O è il salotto radicalbancario milanese che sta provando ad annettersi il mondo cattolico in vista del riassetto dei poteri post-berlusconiano?

Partiamo da due fatti singolari.

Primo. Lo spropositato rilievo che il giornale di via Solferino sta dando al gruppetto che si riunirà a Todi lunedì 17 ottobre. Secondo: il fatto che a “catechizzare” i cattolici di Todi siano stati chiamati proprio il direttore del “Corriere” Ferruccio de Bortoli e il primo editorialista Ernesto Galli della Loggia.

Conosco entrambi e li stimo, sono persone intelligenti, ma appartengono a un’altra storia. Come se non bastasse è stato invitato ad intervenire pure Corrado Passera, di Banca Intesa, che del “Corriere” è editore.

Con tutto il rispetto: che “c’azzeccano” col mondo cattolico?  Sono diventati i nuovi “dottori della Chiesa” oppure ciò che sta accadendo a Todi è il segno del ritorno alla subalternità culturale dei cattolici?

Sarebbe una subalternità (ai salotti corriereschi) analoga a quella che negli anni Settanta i caporali cattolici ebbero verso la Sinistra marxista, che solo il travolgente pontificato di papa Wojtyla, insieme a pochi movimenti cattolici, poté spazzare via.

L’ipotesi della subalternità spiega perché il “Corriere” da giorni dedica paginate su paginate all’ “evento” Todi a cui partecipano 110 persone in tutto. Anche ieri due intere pagine, dicasi due! Che si aggiungono alle paginate delle settimane scorse. Mai visto nulla di simile.

Perché il “Corriere” di norma se ne infischia della cristianità e della fede, spesso le avversa, perfino quando muovono due milioni di giovani all’incontro col Papa o quando si portano dietro – convincendolo – il 75 per cento dell’elettorato italiano (come accadde nel referendum del 2005) o quando riempiono la capitale col “family day”.

Il “Corriere” è un quotidiano marcatamente laicista. Ci scrive anche un intellettuale ufficialmente cattolico (per così dire ratzingeriano), Vittorio Messori. Ma è pressoché un’eccezione.

E questo fa riflettere visto che in Italia si definisce “cattolico” più del 90 per cento della popolazione e i “non credenti” sono dimezzati dal 12 al 6 per cento fra il 1980 e il 2000 (vedi  Loredana Sciolla, “La sfida dei valori”, Il Mulino).

Negli ultimi mesi se non erro il cattolico Messori ha firmato un solo articolo in prima pagina: sulla necessità di tornare al “lei” e al “voi” al posto del “tu”.

Questione effettivamente di scottante attualità sia per la Chiesa che per il mondo, specialmente in mesi come questi in cui sta scoppiando tutto.

Con ciò si capisce qual è di norma l’attenzione del “Corriere” al pensiero cattolico e al popolo cattolico.

In compenso lo stesso “Corriere” si è trasformato in giornale militante, con una sola voce monolitica, nelle battaglie radicali che avevano come avversari i cattolici, a cominciare dal referendum sulla legge 40.

Ultimamente ha perfino sparato in prima pagina un’articolessa che sposava la tesi dei radicali sul presunto “regime fiscale agevolato” della Chiesa, sostenendo che la stessa Chiesa dovrebbe fare una “rinuncia unilaterale” di tali supposti privilegi.

D’altra parte guardando bene nei contenuti lo spropositato spazio del Corriere ai convegnisti di Todi si scorge facilmente la pretesa egemonica (definire cioè da via Solferino chi sono i cattolici e cosa devono pensare).

Ieri – per esempio – un articolo di quelle due pagine presentava come intellettuale cattolico Vito Mancuso.

Sarebbe come se avesse presentato Marco Pannella in qualità di teologo cattolico. O Fausto Bertinotti come simbolo del pensiero liberista e Antonio Martino come intellettuale marxista.

Poi c’era un articolo di aria fritta firmato da Natale Forlani che è addirittura il portavoce di Todi. Chi è questo Carneade? Viene dalla terza fila del sindacato.

Io non ricordo di averlo mai visto nel mondo cattolico, specialmente in trincea. Come sia diventato “generale cattolico” è un mistero.

Appartiene a quel mondo Cisl che non ha mai speso una parola per le battaglie cattoliche (a differenza della Cgil che ci combatteva contro). Come Raffaele Bonanni che tirerà le fila del convegno di Todi: sindacalisti che pretendono ancora di mandare la gente in pensione a 58 anni.

Sarebbero loro il futuro dell’Italia o rappresentano il più disastroso dei passati? Molto meglio Savino Pezzotta che almeno ha una sua storia cattolica.

Un altro Carneade, lontano dalle battaglie dove fischiano le pallottole, è l’altro nome interpellato dal Corriere, lo storico Agostino Giovagnoli, studioso del “modernismo” d’inizio Novecento che giudica un movimento di rinnovamento della Chiesa, quando il santo papa Pio X lo definì “la sintesi di tutte le eresie”.

Entrambi sul “Corriere” hanno definito la presenza dei cattolici negli ultimi vent’anni come “marginale” e “senza incisività”. Ma probabilmente sono solo definizioni autobiografiche, perché il mondo cattolico guidato dal cardinal Ruini invece è stato incisivo e centrale come neanche all’epoca della Dc.

Forse perfino troppo.

E lo sanno bene proprio lorsignori del “Corriere” che nel 2005 capeggiavano il partito del referendum sulla legge 40 e che furono letteralmente stracciati dal mondo cattolico guidato da Ruini. Perché solo questo mondo combatté quella battaglia, con alcuni laici illuminati, e convinse il 75 per cento degli elettori.

Un evento storico che – 25 anni dopo i referendum su divorzio e aborto, (grazie a un pontificato come quello wojtyliano, grazie ai movimenti e al cardinal Ruini) – ribaltava il paradigma sociologico della scristianizzazione del Paese.

Ma un evento storico che il “Corriere”, incassata la disfatta, ha del tutto rimosso, evitando di rifletterci e di riconoscere che non aveva capito l’evoluzione del Paese.  

Io che non sono mai stato della cerchia di Ruini e che ho sempre avuto delle riserve sul protagonismo politico della gerarchia, trovo sconcertante che non si riconosca l’eccezionale peso che grazie a Ruini le istanze cattoliche hanno avuto in questi ultimi anni (penso anche alla legge sulle Dat, su cui Bagnasco ha saggiamente tenuto la rotta giusta).

Non mi stupisce che sia il “Corriere” (essendo stato battuto da Ruini) a teorizzare la marginalità dei cattolici, mi stupisce che siano i promotori di Todi e che la loro tesi sia ripresa e rilanciata (è accaduto ieri, proprio con Forlani) perfino sulla prima pagina di “Avvenire” che del ruinismo – al tempo di Dino Boffo, mente politica illuminata dalla fede – è stato il vittorioso vessillo.

Così come mi stupisce che i “valori non negoziabili” siano praticamente spariti di colpo dall’orizzonte della Cei e di Todi, dopo aver avuto l’esclusiva per quindici anni.

Si può benissimo decidere che oggi le priorità sono altre, più generali, ma si ha il dovere di dirlo chiaramente e di motivarlo con un giudizio che abbia una seria dignità culturale e indichi una diversa prospettiva politica.

Altrimenti si dà l’impressione di archiviare il ruinismo con superficiale tatticismo, cercando solo nuove sponde di potere e un personale protagonismo in politica.

In realtà, come ha spiegato monsignor Negri, la vera urgenza per i cattolici oggi è culturale e sociale, non politica. E il sacrosanto appello di Bagnasco e del Papa al laicato cattolico meriterebbe una risposta di popolo, una fioritura di cultura e di opere sociali.

Invece abbiamo l’assoluta anomalia di un simposio a porte chiuse, riservato a 110 persone, quasi fosse una setta, una conventicola di carbonari. Numero chiuso e a porte chiuse: se lo scopo era quello di aprirsi al futuro…

A Todi non si vedono statisti come De Gasperi, né intellettuali come Del Noce, Sturzo, La Pira o Dossetti, né organizzatori come Gedda e Fanfani o leader come Mattei. Non c’è il popolo cristiano e non ci sono i santi. Però c’è il Corriere.

Dice un folgorante aforisma di Stanislaw Lec: “In principio era il Verbo, alla fine le chiacchiere”.

Antonio Socci

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18/10/2011 23:01
 
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In Cina non c’è più irreligione: i cristiani arriverebbero a 60 milioni

Il governo cinese afferma che sono circa 25 milioni i cristiani, 18 milioni sono i protestanti (di ogni tipo) e 6 milioni i cattolici. Ma i fedeli sono certamente molti di più.

Nell’ex patria dell’ateismo le chiese sono piene ogni domenica di fedeli e il numero dei cristiani -si legge su VaticanInsider- si moltiplica. Il fenomeno appare essere di proporzioni straordinarie, tanto da aver scandalizzato recentemente anche la BBC che ha indicato come responsabile la decennale repressione ideologia laicista.

Nonostante la Cina continui ad espellere i missionari e al di là delle dichiarazioni di Pechino, gli esperti prospettano che i cristiani possano benissimo arrivare a 60 milioni, dunque una minoranza altamente significativa. I nuovi convertiti (in Ultimissima 20/5/11 si parlava di 10 mila conversioni al giorno) vanno dai contadini delle zone rurali ai giovani uomini d’affari delle megalopoli in piena espansione.

Negli ultimi decenni i cristiani sono stati considerati “velenosi“, per stare alle parole di Mao, e la Rivoluzione culturale degli anni ’70 cercò semplicemente di sradicare fisicamente questo veleno. Ma ancora una volta, il sangue dei martiri si è rivelato fruttuoso. Nel 1980 credere in Dio è sostanzialmente tornato a essere legale, almeno fino a quando le varie Chiese fanno riferimento all’Amministrazione degli Affari religiosi sotto la responsabilità dello Stato ufficialmente ateo. Tuttavia cresce continuamente il fenomeno delle Chiese domestiche, le quali rifiutano ogni organizzazione burocratica e statale e affrontano con coraggio e determinazione carcere e maltrattamenti.

Secondo Carl Moeller, presidente di “Open Doors”, il cristianesimo in Cina sta sperimentando una crescita esplosiva e questo accade soprattutto fra i giovani. E spiega: «C’è un’evidenza reale, tangibile, secondo cui gli uomini di affari cinesi che seguono la dottrina cristiana nei loro affari tendono ad avere più successo degli altri. Credo che qui abbiamo una dinamica spirituale ed economica unica, che facilita la crescita delle Chiese in Cina». Una “teologia della prosperità” che però appare non esente da rischi futuri.

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26/10/2011 22:07
 
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ESSERE CATTOLICI TRA INCANTATORI E PERSECUTORI

Nebbia e tenebre fitte attorno ai cattolici in questi giorni. Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza. In queste ore c’era una vera notizia, importante, che riguardava la Chiesa: la proclamazione dell’Anno della fede fatta da Benedetto XVI.

Ebbene, è stata alquanto snobbata dai mass media, impegnati com’erano a farsi regalare un titolo di politica (contro il governo) dalla piccola e confusa conventicola di Todi.

Che rischia di farsi abbindolare dai media e di farsi usare come foglia di fico per progetti di potere altrui.

Così la grande notizia (sull’Anno della fede), è stata oscurata dalla piccola sceneggiata di Todi (dove va ricordato solo il bellissimo discorso di Bagnasco, disatteso da Bonanni e dal resto della compagnia).

Non solo. Per i cattolici c’erano altre due notizie più importanti di Todi, anch’esse passate in cavalleria.

Primo: la profanazione della chiesa di Roma durante le violenze di sabato, che risulta un inedito. Molti semplici cristiani mi hanno scritto, feriti nell’anima, dicendo che l’atto sacrilego della profanazione di quella chiesa (del crocifisso e della statua della Madonna) rende necessaria quantomeno una solenne messa riparatoria.

Penso anche io che si dovrebbe annunciarla pubblicamente e celebrarla in quella stessa chiesetta violata (a due passi dal Laterano, dal Colosseo e da San Pietro).

Oltre a ciò occorre che i cattolici abbiano finalmente un giudizio chiaro su una mala pianta ideologica che in Italia (e solo in Italia) da decenni dà frutti di odio e (nelle frange estreme) di violenza: l’hanno sperimentata i nostri padri nell’immediato dopoguerra, l’abbiamo sperimentato noi dopo il ’68 e ora lo sperimentano i nostri figli.

C’è poco da stupirsi. E’ sempre quella. C’è sempre la stessa bandiera che svolazza, anche se oggi sembra raggruppare pure giovanotti meno politicizzati, più nichilisti che rivoluzionari. Tuttavia usati in un alveo velleitariamente rivoluzionario che ha una continuità ideologica col passato.

L’odio ideologico del resto è sempre uguale, al di là della sommossa di sabato: cambiano solo – di decennio in decennio – i “nemici” politici contro cui scagliarsi e certi contenuti e slogan. Ma contro la Chiesa l’odio non cambia mai.  

Il secondo fatto, ben più importante di Todi, ma anch’esso snobbato dai media è l’ennesimo martirio, nelle Filippine, di un missionario italiano, padre Fausto Tentorio.

Questo sacerdote del Pime era, laggiù nelle Filippine, un segno dell’amore di Cristo per tutti gli uomini, a partire dai più abbandonati e oppressi. E, come al solito, è stato fatto fuori.

Sono duemila anni che va così. E triste che i media e il nostro mondo intellettuale lo dimentichino e non perdano occasione per trascinare la Chiesa (sempre martire) sul banco degli imputati.

Chi annuncia Cristo è costretto in partenza a mettere in conto l’odio del mondo, la violenza e pure il martirio: questo dovrebbe far capire pure ai “carbonari” di Todi che quando invece i pifferai del mondo ti suonano la serenata e di coprono di elogi significa che non stai seguendo il Signore, ma stai servendo “lorsignori”.

Infatti padre Fausto, in una sorta di testamento spirituale, aveva scritto di “essere riconoscente a Dio per il grande dono della vocazione missionaria” e di essere “cosciente che essa comporta la possibilità di trovarmi coinvolto in situazioni di grave rischio per la mia salute ed incolumità personale, a causa di epidemie, rapimenti, assalti e guerre, fino all’eventualità di una morte violenta. Tutto accetto con fiducia dalle mani di Dio, e offro la mia vita per Cristo e la diffusione del suo Regno”.

Questi sono gli uomini (e nella Chiesa ce ne sono tantissimi) da guardare e da ammirare. Quelli di cui i media si disinteressano.

Non gli idoli fabbricati dai media: lo dico anche per certi cattolici che nei giorni scorsi hanno idolatrato Steve Jobs, ma che neanche si sono accorti del martirio di padre Fausto (si commuovono per l’I-Phone, i poverini…).

I missionari del Pime concludono il loro comunicato sulla morte di padre Fausto così: “Infine vogliamo pregare per la conversione dell’uccisore e degli eventuali mandanti, perché aprano il cuore al Signore: Egli non vuole che i peccatori periscano, ma che si convertano e abbiano la vita eterna”.

Questo – cari signori e cari compagni – è il mondo nuovo che tutti sognano e che alcuni credono di ottenere sfasciando le città e la testa del prossimo.

Questi uomini e donne di Dio capaci di dare la vita per amore e di perdonare sono l’alba dell’unico mondo davvero nuovo e davvero felice.

I cattolici devono capire – anche perché papa Ratzinger lo ripete da sempre – che non è dalla politica, né dall’economia che può venire la salvezza e la felicità: è solo dall’amore. Cioè da Gesù Cristo e dalla vita nuova che egli suscita in chi lo segue.

Da questo punto di vista era assurdo che a Todi partecipassero dei movimenti ecclesiali la cui missione è prettamente evangelizzatrice. Infatti l’azione politica – cosa ben diversa – deve avere altri soggetti, sennò tutte le cose che sono state insegnate sulla laicità dal Concilio vanno a ramengo.

Dunque è stato molto significativo e saggio che non fosse presente a Todi un movimento ecclesiale come “Comunione e l.iberazione”.

Mentre trovo inspiegabile che abbia partecipato l’Azione Cattolica: cos’ha a che fare con la Confartigianato e con i proclami di Bonanni sul governo?

L’Azione Cattolica non aveva fatto la “scelta religiosa”? La distinzione dei piani di Maritain – ripetuta fino alla noia dal professor Lazzati – non ha insegnato proprio niente a costoro?

Devo dire che mi ha stupito negativamente pure la partecipazione a Todi di un mio caro amico, Salvatore Martinez, responsabile nazionale del “Rinnovamento nello Spirito”, uno splendido movimento ecclesiale che non ha a che fare direttamente con la politica (Martinez fra l’altro è fra i consultori del papa).

Il mio amico Martinez per ingenuità si è trovato coinvolto in una parata che è risultata un’operazione di politica politicante. E sempre per ingenuità ieri ha rilasciato un’intervista al “Corriere” il cui titolo contro il governo deve averlo davvero amareggiato, perché forzava le sue dichiarazioni.

Ma voglio considerare le cose che Martinez ha effettivamente detto. Ha parlato di etica, di “coscienza sociale erronea” e ha aggiunto: “proponiamo un rilancio di quell’idealismo cristiano dal quale discendono le buone prassi”.

Ma allora mi chiedo (e chiedo a Martinez): non era più serio che a Todi, con questo tipo di preoccupazioni etiche, si prendessero di petto – per esempio – una piaga sociale come l’evasione fiscale o errori “politico-sindacali” perduranti e disastrosi come le pensioni a 50 anni, invece di puntare banalmente il dito sul solito Berlusconi (cosa facilissima, ma parziale e ipocrita)?

Sarebbe stato giusto, prezioso e morale, perché questi sono i problemi che restano anche quando sarà spazzato via Berlusconi.

Infine colpisce la ristrettezza di orizzonti di Todi. Al di là di una sparata contro l’attuale governo nient’altro: della condizione dei cristiani nel mondo, uno scandalo che grida al cospetto di Dio, nulla si è letto.

Eppure siamo a pochi giorni da un ennesimo massacro, quello in Egitto, dove i cristiani, adesso, dopo essere stati martirizzati vengono pure colpevolizzati dalle menzogne del potere che sono state fatte proprie perfino da Obama, come spiegano gli articoli di Bernardo Cervellera su Asianews.

Potranno esserci dei cristiani che, tristemente, abboccano alle lusinghe delle sirene e dei poteri mondani, ma la Chiesa e i suoi figli non abboccheranno mai: “Molti tentano la Chiesa” scriveva già s. Ambrogio “ma nessun ‘incantesimo’ le potrà nuocere. Non hanno alcuna efficacia gli incantatori, là dove ogni giorno risuona il cantico di Cristo. Ella ha già il suo incantatore: è il Signore Gesù per opera del quale ha potuto rendere inefficaci gli incantesimi degli incantatori e i veleni dei serpenti”.

 Antonio Socci

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07/11/2011 22:45
 
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Cosa fare di fronte al disastro

Alluvioni e disastri materiali (due in dieci giorni) si sommano a alluvioni e disastri economici e finanziari e tutti insieme, proprio nelle stesse ore, sconvolgono questa povera Italia, “nave senza nocchiero in gran tempesta”, facendo dilagare insicurezza, angoscia, paura del futuro, smarrimento.

Possibile che proprio nel 150° anniversario della costruzione dello stato unitario degli italiani si debba rischiare il baratro quando tutti sanno, nel mondo, che la nostra è un’economia forte? I disastri naturali arrivano esattamente nei giorni più cupi ad alimentare smarrimento e depressione.

Fra i flutti minacciosi del mare in tempesta, tutti cerchiamo la stella polare per ritrovare la rotta e tutti guardiamo al timone, che sembra abbandonato a se stesso. Ma soprattutto tutti ci chiediamo cosa ognuno di noi possa fare, perché di certo ognuno di noi può fare qualcosa, anche senza rimetterci un euro.

Questa, fra l’altro, è la felice intuizione del signor Giuliano Melani che ha invitato tutti gli italiani a comprare, lunedì prossimo, i titoli pubblici dello Stato (il risparmio degli italiani è fra i più alti nel mondo).

Una strada semplice e facile, ma geniale (e pure conveniente) per una prima uscita dal rischio fallimento. E’ noto infatti che il Giappone è enormemente più indebitato di noi: lì il rapporto debito/pil è addirittura al 223 % e quello fra deficit e pil è al 7,50 %.

Ma il Giappone non incorre nelle punitive speculazioni del mercato e nelle umiliazioni di altre potenze proprio perché tutto il debito pubblico è allocato nelle mani dei risparmiatori giapponesi.

Dunque il “teorema Melani” dovrebbe farci aprire gli occhi. Più in generale dovremmo capire che impegnarsi (utilmente) invece che (inutilmente) indignarsi è il primo passo di una riscossa civile e di un soprassalto di dignità nazionale.

Anche perché è ben difficile confidare nei politici e nelle élite (considerata pure la disastrosa prova che stanno dando oggi, come nel passato).

Costoro dovranno cambiare radicalmente per riguadagnarsi la nostra fiducia. Ma anche noi dovremo cambiare.

La “malattia” italiana attuale è anzitutto una malattia spirituale e morale, perché il Paese ha tutte le risorse materiali per tappare le falle apertesi nella nave e riprendere la navigazione.

Occorrono qualità umane (disinteresse, dedizione al bene comune, sapienza, dignità, senso di responsabilità, spirito di sacrificio, onestà e solidarietà) più ancora che risorse finanziarie.

Lo ha sottolineato ieri lo stesso presidente della Repubblica quando ha detto che per uscire dalla crisi bisogna “ritrovare la strada della coesione sociale e nazionale”.

Ha aggiunto: “Bisognerà cambiare molte cose nel modo di governare, produrre e lavorare, vivere e comportarsi di tutti noi”, “indispensabile sarà lo spirito di sacrificio e lo slancio innovativo, affrontando anche decisioni dolorose che potranno apparire impopolari”.

Napolitano ha concluso: “L’Italia non può trovare la sua strada in un clima di guerra politica. È indispensabile riavviare il dialogo tra campi politici contrapposti”.

Quello che serve è una rinascita spirituale e morale, perché le risorse economiche per far fronte ai problemi ce le abbiamo già. Ma allora a chi rivolgersi per ritrovare energie morali che possano far cambiare la mentalità di una classe dirigente e di un popolo? A chi guardare?

Anche la Chiesa è chiamata a dare il suo prezioso contributo per il suo millenario rapporto di maternità col nostro popolo. Ma qual è il primo contributo che i cattolici possono dare al bene comune?

C’è anzitutto la loro operosità (la si vede in atto anche a Genova in queste ore), c’è la carità, che sostiene tante situazioni di sofferenza e di bisogno. La loro è una presenza preziosa e indispensabile anche fra i giovani.

Ma il primo contributo dei cristiani al bene di tutti – ci ha spiegato il papa – è la fede, che si esprime anzitutto con la preghiera e che sta alla base anche della carità.

Il popolo cristiano lo sa. Vorrei dunque girare al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, e a tutta la Chiesa italiana, l’appello che mi è stato rivolto da tanti lettori che mi hanno scritto, perché venga indetta in tutte le chiese del paese una grande giornata di preghiera per l’Italia.

Magari con qualche gesto solenne alla santa casa di Loreto (perché l’Italia è la seconda patria della Regina del Cielo) e presso i nostri santi protettori, ad Assisi, alla tomba di san Francesco, e a Santa Maria sopra Minerva, a Roma, dove è sepolta santa Caterina.

So che ad alcuni sembrerà illusorio l’appello alla preghiera, ma il problema è che sembrerà fuori luogo anche a tanti ecclesiastici e a tanti “cattolici impegnati”, i quali credono che il contributo che i credenti possono dare al bene comune sia anzitutto un discorsetto sociologico (o magari qualche convegno che permetta a certuni di mettersi in luce per prenotarsi poltrone o ricollocarsi per salvare posizioni di potere).

Invece il vero e più prezioso tesoro che i cristiani portano al bene comune è anzitutto la preghiera e la conversione. Perché la benedizione di Dio – come disse il Papa quando esplose la crisi finanziaria negli Stati Uniti e crollarono imperi finanziari – è l’unica certezza che non viene meno, che non tradisce, che protegge, che illumina e porta pace e bene per tutti.

L’antico popolo d’Israele vinceva le sue battaglie contro i nemici quando Mosè teneva le mani alzate in preghiera. Così anche la Chiesa sa, da sempre, che la preghiera è una forza potentissima. Basti dire che Benedetto XVI – sulla scia di Giovanni Paolo II – nei giorni scorsi ha di nuovo messo in relazione il crollo incruento delle dittature comuniste del 1989 con la preghiera dei cristiani e dei martiri.

E la Madonna – a Fatima e a Medjugorije – ha ripetuto che la preghiera ha perfino il potere di fermare o allontanare le guerre (anche se certe élite cattoliche sembrano ignorarlo).

Infatti nel Motu proprio con cui indice l’ “Anno della fede”, Benedetto XVI scrive: “Capita non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune”.

Mentre “questo presupposto non è più tale”. Se qualche cattolico non crede nell’immensa forza della preghiera la fede manca anzitutto a lui.

Chi aveva molto chiaro tutto questo era un uomo, don Luigi Giussani, che pure aveva insegnato a una generazione di cattolici a impegnarsi negli ambiti sociali, culturali, civili e politici.

Quindici anni fa, nel 1996, quando l’Italia attraversò un’altra crisi – ma molto meno grave di quella attuale – don Giussani lanciò, come iniziativa pubblica, proprio un gesto di preghiera alla Madonna di Loreto e ai Santi Patroni per la salvezza del nostro Paese.

Si spiegò con queste parole in un’intervista alla Stampa:

“la situazione è grave per lo smarrimento totale di un punto di riferimento naturale oggettivo per la coscienza del popolo, per cui il popolo stesso venga spinto a ricercare le cause reali del malessere e a salvarsi così dagli idoli. Questo smarrimento comporta una inevitabile, se non progettata, distruzione dello stato di benessere, che risulta così totalmente minato nella tranquillità del suo farsi. Perché riprendere, bisogna pur riprendere!”.

Sembrano parole pronunciate oggi. Nei grandi cristiani il realismo fa a braccetto con il totale affidamento a Dio (non con le chiacchiere sociologiche).

Del resto nella storia delle nostre città e del nostro popolo, per secoli, l’incombere delle avversità (epidemie, guerre, terremoti, alluvioni, carestie) ha sempre indotto la nostra gente a raccogliersi nelle chiese e affidarsi alla Madonna e ai santi della nostra terra.

E gli innumerevoli santuari e le tante immagini votive ricordano quante volte il popolo è stato soccorso, quante volte sono state scongiurate tragedie e quante volte sono stati illuminati coloro che potevano determinare il bene o il male di tutti.

Antonio Socci

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15/11/2011 08:50
 
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LA CRISI DELLE ECONOMIE EUROPEE:
PERCHE' AVVENGONO E COME USCIRNE


Il modo come l’Europa si presenta oggi al mondo assomiglia a uno spettacolo di frenetici che hanno perso l’uso della ragione. Di fronte alla crisi che si espande, nell’ambiente politico europeo predomina l’indecisione, l’incertezza, la contraddizione e la mancanza di logica; a loro volta le fanno eco la maggior parte dei media con opinioni differenti, incomplete e contraddittorie, come se esistesse il timore di indicare schiettamente tutta la realtà.


Il vero impasse  
D'altronde, si capisce, è in gioco la sopravvivenza stessa del progetto “unione europea” tanto cullato  dai vertici  che governano l’Europa. È stata escogitata la costruzione di un’Europa unita, artificialmente strutturata secondo certe norme stabilite da una cupola, con la collaborazione di un parlamento e di una banca centrale europei e l’hanno posta sotto l’egida di un regime monetario a moneta unica - l’euro. Il frutto promesso di questa nuova Europa sarebbe un balzo in avanti nel progresso e nel benessere economico-sociale delle popolazioni dei 27 paesi membri. E questo senza la necessità, nei suoi aspetti basici, che tali paesi rinunciassero alle proprie strutture di governo individuali. Questa preservazione dell’ indipendenza politica ed economica - anche se entro certi limiti - rese il progetto presentabile agli occhi dell’opinione pubblica.


Tuttavia, il “tallone di Achille” è rappresentato proprio da questa indipendenza enunciata nel progetto. Infatti, in un regime a moneta unica, qualsiasi scompiglio fiscale o monetario, oppure l’esistenza di qualche tipo di rigidità nei prezzi e nei salari - frutti di pressioni politiche interne, o di una gestione sbagliata dell’autorità economica di un paese-membro - colpisce necessariamente e in modo diretto la sua economia reale, cioè, il livello dell’occupazione e del reddito. E, dipendendo dall’entità di questo scompiglio, il paese “ammalato” può contagiare tutto l’insieme. Non esiste la possibilità di alterare il tasso di cambio, che in queste situazioni potrebbe agire come una specie di ammortizzatore, diminuendo le conseguenze negative che questi scompigli causano all’occupazione e al reddito del paese colpito, evitando quindi il contagio.


In realtà, per un conglomerato di nazioni, la presenza di una moneta unica e l’indipendenza dei suoi membri nelle decisioni di campo economico-finanziario sono, in un certo modo, termini contraddittori. È un problema difficile da risolvere quando la rinuncia a questa indipendenza in favore di un governo centrale sembra essere un’utopia irrealizzabile; soprattutto trattandosi di paesi di grande tradizione storica, e marcati da differenze culturali profonde e ricche di consuetudini, come nel caso delle nazioni europee.


Questo è il vero impasse in cui si trova oggi l’Unione Europea. Ossia, come uscire dalla crisi mantenendo l’indipendenza politica ed economica dei suoi paesi-membri, specialmente in materia fiscale e monetaria.


La realtà dei fatti

Il primo paese a entrare in crisi è stata la Grecia - nel 2010, per l’incapacità di  pagare i propri debiti. In questo momento, il Portogallo e la Spagna sono sotto i riflettori, cioè, nell’imminenza di una crisi nei propri bilanci di pagamento. Qualcosa di simile  sorge all’orizzonte anche per l’Italia. 
Il comune denominatore di queste situazioni è la mancanza di disciplina fiscale, ossia, si spende oltre al consentito, accumulando un debito che, a causa del suo ammontare, minaccia di non poter essere risarcito. 


Quindi, la prima reazione del mercato è di sospendere i nuovi prestiti ed ostacolare il rinnovo di quelli precedenti, generando così un’esplosione negli interessi da pagare. E, alla fine di questo percorso, si arriva celermente al fallimento.


Per evitare questa situazione estrema, le nazioni sotto pressione si vedono obbligate a spendere meno - “stringono la cintura” - provocando la disoccupazione e il calo del reddito. E, come conseguenza naturale, si generalizza lo scontento tra la popolazione con prevedibili danni sociali e politici.


Questa situazione rende facilmente vulnerabili le banche creditrici, generando instabilità in tutto il sistema finanziario, specialmente quello europeo. Per evitare il contagio, gli organi finanziari internazionali, (la Banca Centrale Europea, l’FMI, ecc.)     corrono in aiuto delle banche creditrici comprando i titoli “marci” delle nazioni in crisi, in possesso di queste banche. Si tenta così di salvarle da un’eventuale bancarotta, addossandosi il debito non rimborsabile. Nel contempo, le autorità centrali premono i paesi in difficoltà perché mettano in pratica una disciplina fiscale che equilibri le spese con i redditi. In questo modo mirano a creare le condizioni affinché, in un lasso di tempo più o meno lungo, possano pagare i titoli che sono rimasti in possesso di questi organi finanziari internazionali. 


Chi assume il costo di questo “corri corri”? Il paese o i paesi in crisi e tutti gli altri appartenenti all’insieme - e dentro l’insieme, specialmente i paesi più forti e disciplinati. Detto con altre parole, il danno è generale, con una distribuzione del carico a seconda delle situazioni particolari e dei negoziati politici. Dinanzi a questa situazione, è del tutto ragionevole che i cittadini dei paesi più forti e disciplinati si domandino perché dovrebbero addossarsi una buona parte di questo costo. Peggio ancora, chi li assicura che, una volta risolta la situazione, non ci sarà una recidiva. Sono domande valide e difficili da rispondere.


La via d’uscita
Il lettore avvertirà facilmente che tutto questo costo politico, sociale ed economico emerge, in ultima analisi, a causa  del tentativo di sorreggere l’euro, la moneta unica dell’Unione Europea. 


Da quel che fin qui è stato detto non sembra difficile concludere che i paesi membri dell’Unione Europea sono davanti a una alternativa: rinunciare alla conduzione delle proprie economie o rinunciare all'euro. Rinunciare alla conduzione delle proprie economie significherebbe rinunciare, in non piccola misura, alla propria indipendenza politica. Orbene, grazie a Dio, questa via è totalmente inaccettabile  per la maggioranza degli europei. Resta, dunque, l’ipotesi di abbandonare la moneta unica.


La via d’uscita è senz’altro dolorosa. Ma, per lo meno, si avvia nella giusta direzione. Insistere con le pseudo-soluzioni che non risolvono il problema di fondo non sembra essere un atteggiamento sapiente. Sarebbe come se qualcuno assumesse un’aspirina per curarsi un cancro. Il cammino del progresso dell’Europa non passa dall’euro o da qualsiasi altra moneta unica. Basterebbero un mercato aperto per i prodotti e le risorse, nonché una politica economica individuale corretta da stabilità monetaria e fiscale. In un ambiente tale, la varietà dei meriti e delle qualità che caratterizzano i popoli europei, come frutto di antiche tradizioni che ancora sopravvivono, brillerà con un maggior splendore, per il fascino e vantaggio del mondo intero.


In questa situazione i paesi “indisciplinati” verrebbero “castigati” dal mercato. Ma, complessivamente, le vie d’uscita sarebbero più soavi e senza il pericolo di un grave contagio. Insistere sulla moneta unica non ha un fondamento economico di rilevante importanza. In effetti, e soprattutto, si giustifica soltanto in merito a scopi politico-ideologici.
Benché dolorosa, l’unica soluzione per l’attuale crisi economica 
che devasta il continente europeo è l’abbandono dell’euro. 
L’insistenza sulla moneta unica non si giustifica, se non per motivi politico-ideologici.


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02/12/2011 23:47
 
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MILANO

Intiglietta: «Tradizione e cultura artigiana per superare la crisi»

di Elisabetta Soglio

01/12/2011 - Sabato 3 dicembre apre i battenti l'Artigiano in Fiera: 2.900 espositori da 110 Paesi del mondo. Il presidente della kermesse al "Corriere della Sera" racconta il fascino del lavoro manuale e afferma: «Serve un cambio di mentalità dei giovani»

Fino all'11 dicembre, presso il polo fieristico di Rho (MI), la sedicesima edizione de "L'artigiano in Fiera". Dall'arredamento alla moda, dal design ai cantieri nautici. In 150mila metri quadrati di spazio espositivo.
Per informazioni: www.artigianoinfiera.it

Gli artigiani ci salveranno? «Di certo, possono rappresentare una risposta alla crisi e una prospettiva per i nostri giovani». Antonio Intiglietta, presidente di GeFi, sta per inaugurare la sedicesima edizione di Artigiano in Fiera. Nell'85 arrivarono 700 artigiani e 300 mila visitatori: oggi gli espositori saranno 2.900, provenienti da 110 Paesi del mondo e, sui 150mila metri quadrati degli spazi di Rho-Pero si attendono 3 milioni di visitatori.

Vuol dire che l'artigianato non sente la crisi?
«Vuol dire che la crisi rimette al centro la cultura che sta alla base del lavoro dell'artigiano: la parte della tradizione che valorizza arti e mestieri. Lo dicono molti filosofi e sociologi: la rifondazione dell'economia oggi può partire dalla cultura artigiana che mette al centro l'uomo, la sua manualità, l'idea che non è solo il profitto per il profitto a darti la linea, la capacità di unire esperienza, tradizione e innovazione».

Un'alternativa al mondo governato dalla finanza?
«Oggi la finanza è il pericoloso trionfo del mondo virtuale che ha messo sotto scacco l'economia reale».

La gente come risponde?
«Penso ai dati della nostra Fiera. Il 94 per cento di chi torna, non ha come obiettivo acquistare un prodotto, ma incontrare l'artigiano conosciuto l'anno prima. Si suscita un sentimento di stupore, di fronte alla bellezza del lavoro manuale, di stima e di grande rispetto per queste persone che si sono messe in gioco, che difendono la tradizione».

Intiglietta, ma si può proporre a un giovane di fare l'artigiano?
«Si deve provocare un cambio di mentalità. Si deve spiegare a un giovane che può realizzarsi anche se è laureato tornando alla manualità: anzi, il fatto di avere studiato e avere acquisito abilità consente ai ragazzi di unire tradizione e innovazione e di diventare competitivi. In fiera abbiamo uno spazio dedicato proprio a queste esperienze di giovani che si sono messi in gioco riscoprendo le arti e i mestieri. Come difenderemo il made in Italy se non avremo più sarti o falegnami o tessitori?».

Non è degradante chiedere a un laureato di fare l'artigiano?
«Al contrario. È degradante costringere un laureato ad accettare lavori che sviliscono la sua preparazione e la sua umanità. Noi proponiamo un'altra forma per consentire a chi è giovane di esprimere la propria originalità, il proprio sapere e la propria unicità».

Siete cresciuti nei numeri e nel consenso. Il prossimo obiettivo che vi siete dati?
«Vogliamo realizzare un villaggio globale della tradizione della cultura del mondo e siamo a più della metà dei Paesi. Chiuso qui, noi andiamo in India, in Vietnam, in Cambogia: andiamo a cercare storie ed esperienze che ci possono arricchire. E poi vogliamo valorizzare i comparti dove ci sono grandi maestri»
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23/01/2012 09:16
 
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Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci 

 

L’Europa ha rifiutato le “radici cristiane” e ora è sotto la dittatura simil-sovietica del “politically correct”, dominata da una tecnocrazia antidemocratica e (economicamente) fallimentare

Posted: 15 Jan 2012 03:38 AM PST

Eravamo da sempre il Paese più europeista. Fino a un anno fa. In dodici mesi la fiducia degli italiani nell’Unione europea è precipitata. Secondo l’ultimo rilevamento dell’Ipsos ha perso addirittura 21 punti percentuali (passando dal 74 per cento al 53).

Un crollo che dovrebbe far riflettere i politici e soprattutto le tecnocrazie europee a cui gli italiani sono sempre più ostili.

Anche perché il crollo della fiducia degli italiani non è un fatto emotivo passeggero, né uno stato d’animo superficiale. Al contrario. Il loro europeismo era a prova di bomba.

UN ESPERIMENTO FOLLE

Hanno accettato di fare sacrifici per entrare nella moneta unica, hanno accettato perfino di farsi spennare da un cambio lira/euro estremamente penalizzante e poi hanno subito – senza fiatare – il sostanziale raddoppio di tutti i prezzi con l’inizio dell’euro (un impoverimento di massa).

La loro fiducia è crollata solo davanti alla scoperta che la sospirata “moneta unica” – che tanto ci era costata – realizzata in quel modo (senza una banca centrale e un governo come referenti ultimi) era una trovata assurda e fallimentare di tecnocrazie incompetenti e arroganti.

Grazie a questo incredibile esperimento, l’Italia – un Paese solvibilissimo e che ha la sesta economia del pianeta – sta ora rischiando il fallimento (del tutto ingiustificato visti i suoi fondamentali).

Quello che gli italiani ignorano è che tale disastro era stato previsto. E pure che la china antidemocratica che l’Ue sta imboccando da venti anni a questa parte era evidente ed era stata denunciata.  

L’affievolimento della democrazia e dei diritti individuali, la dittatura del “politically correct”, è qualcosa a cui purtroppo facciamo meno caso – come si vede in queste settimane in Italia – ma è perfino più grave del fallimento politico ed economico della Ue.

UNA VOCE PROFETICA

Una delle voci nel deserto che videro in anticipo è quella di un eroico dissidente russo,Vladimir Bukovsky, uno così temerario e indomabile che già a venti anni era inviso al regime comunista sovietico il quale lo rinchiuse nei manicomi politici e nel gulag, torturandolo (infine – pur di disfarsene – lo cacciò via nel 1976 in cambio della liberazione in Cile del leader comunista Luis Corvalan).

Ebbene, Bukovsky, in una conferenza nell’ottobre del 2000, riportata di recente su “Italia oggi”, se n’era uscito con affermazioni che sembrarono allora esagerate, che forse lo sono, ma che – alla luce degli ultimi eventi – rischiano di essere semplicemente profetiche.

Non mi riferisco solo a eventi come il commissariamento dell’Italia e della Grecia e il tentato commissariamento (in corso) dell’Ungheria, ma anche alle cessioni di sovranità dei diversi stati mai sottoposte ai referendum popolari o alle “bocciature” di tali cessioni (nei referendum o nei parlamenti) che sono state sostanzialmente ignorate.

Per quasi 50 anni” disse Bukovsky “abbiamo vissuto un grande pericolo sotto dell’Unione Sovietica, un paese aggressore che voleva imporre il suo modello politico a tutto il mondo. Diverse volte nella mia vita ho visto per puro miracolo sventare il sogno dell’Urss. Poi abbiamo visto la bestia contorcersi e morire davanti ai nostri occhi. Ma invece di esserne felici, siamo andati a crearci un altro mostro. Questo nuovo mostro è straordinariamente simile a quello che abbiamo appena seppellito”.

Si riferiva all’Unione europea. Argomentava:

“Chi governava l’Urss? Quindici persone, non elette, che si sceglievano fra di loro. Chi governa l’Ue? Venti persone non elette che si scelgono fra di loro”.

Bisogna riconoscere che oggi abbiamo addirittura governi non eletti (come quello italiano) con un programma dettato dalla Bce.

Diceva ancora Bukovsky:

“Come fu creata l’Urss? Soprattutto con la forza militare, ma anche costringendo le repubbliche a unirsi con la minaccia finanziaria, facendo loro paura economicamente. Come si sta creando l’Ue? Costringendo le repubbliche a unirsi con la minaccia finanziaria, facendo loro paura economicamente. Per la politica ufficiale dell’Urss le nazioni non esistevano, esistevano solo i ‘cittadini sovietici’. L’Ue non vuole le nazioni, vuole solo i cosiddetti ‘europei’. In teoria, ogni repubblica dell’Urss aveva il diritto di secessione. In pratica, non esisteva alcuna procedura che consentisse di uscirne. Nessuno ha mai detto che non si può uscire dall’Europa. Ma se qualcuno dovesse cercare di uscirne, troverà che non è prevista nessuna procedura”.

Bukovsky arrivava fino a giudizi pesantissimi, sicuramente esagerati, ma chi ha subito ciò che lui ha subito in difesa della libertà di coscienza ha tutto il diritto di essere ipersensibile a ogni violazione della libertà di pensiero e dei diritti individuali:

“L’Urss aveva i gulag. L’Ue” aggiungeva Bukovsky “non ha dei gulag che si vedono, non c’è una persecuzione tangibile. Ma nonostante l’ideologia della sinistra di oggi sia ‘soft’, l’effetto è lo stesso: ci sono i gulag intellettuali. Gli oppositori sono completamente isolati e marchiati come degli intoccabili sociali. Sono messi a tacere, gli si impedisce di pubblicare, di fare carriera universitaria ecc. Questo è il loro modo di trattare con i dissidenti”.  

Un’esagerazione certamente, ma è la sua stessa vicenda personale a far riflettere sulla libertà del pensiero e della cultura in Europa occidentale.

DITTATURA POLITICALLY CORRECT

Quanti in Italia conoscono Vladimir Bukovsky, il leggendario dissidente, l’eroico difensore della libertà di coscienza?

Eravamo pochissimi isolati che nei primi anni Settanta ne seguivamo le peripezie (nei manicomi politici e nei lager): i miei coetanei – specie quelli che oggi pontificano dai giornali come giornalisti, opinionisti e intellettuali – avevano come loro mito i vari Mao, Fidel Castro e perfino Stalin.

Oggi molti di loro – dopo essersi autoassolti – impartiscono lezioni di liberaldemocrazia dai mass media, ma senza mai aver fatto un vero “mea culpa”, infatti continuano a cantare in coro. E continuano ad avere in gran dispetto le voci libere come Bukovsky.

Il motivo semplice. Perché mette sotto accusa le élite culturali europee (e anche quelle politiche). Perché è un uomo che – dopo aver sfidato il Kgb e la cappa di piombo del regime sovietico – ha sfidato la cappa di piombo del conformismo “politically correct” occidentale.

E’ uno che nei suoi libri scrive: “Il comunismo è una malattia della cultura e dell’intelletto… Le élite occidentali penso non capissero l’universalità di quel male, la sua natura internazionale e quindi il carattere universale della sua pericolosità”.

La sua ha continuato ad essere una voce scomoda e isolata perché – dopo il crollo delle feroci nomenclature comuniste – non ha chiesto vendetta, ma ha pure rifiutato che si autoassolvessero e restassero al potere.

Ha scritto in un suo libro: “Noi siamo pronti a perdonare i colpevoli, ma loro non devono assolversi da sé”.

E’ chiaro perché uno così, in un paese come l’Italia, è sconosciuto e continua ad essere una voce silenziata. Infatti quante volte è stato fatto parlare in tv o sui giornali italiani?

Parla in Gran Bretagna, in America… Ma in Italia è una voce silenziata. Quali case editrici hanno pubblicato i suoi libri? Prendiamo il volume che ha scritto, dopo il crollo dell’Urss, quando poté tornare a Mosca e pubblicare i documenti degli archivi del Cremlino: chi ha tradotto quel libro in Italia? La piccolissima editrice Spirali.

Infatti “Gli archivi segreti di Mosca” è pressoché sconosciuto e ben pochi ne han parlato sui giornali. Eppure riguardava anche noi italiani.

ALLARME

Voci profetiche come quella di Bukovsky devono far riflettere soprattutto in un Paese come il nostro dove ha sempre scarseggiato la sensibilità per i diritti dell’individuo e ha sempre abbondato il conformismo culturale, la prevaricazione delle nomenklature e quella dello stato.

L’allarme del dissidente russo sull’Europa ci riguarda e ci deve far riflettere. Oggi più che mai. Ma ancora una volta sono poche le voci sensibili all’allarme sulla libertà.

 Antonio Socci

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27/01/2012 08:44
 
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La mia risposta sul “caso Castellucci” (con un invito ad andare a leggere sul sito della Chiesa francese)

 

Ci sono cattolici ragionevoli e seriamente preoccupati che hanno scritto sul “caso Castellucci” e pure che hanno inviato mail a me. Con costoro credo si possa convenire che c’è stato un colossale malinteso: in quella pièce teatrale non c’è nessun lancio di escrementi sacrilego.

Secondo me dovrebbe bastare questo a mettere fine alla bagarre.

Ma ci sono anche alcuni fanatici, che in certi casi sembrano francamente confusi dall’astio, talora dall’odio, e che mi scrivono insulti (complimenti: che bel cristianesimo!).

Costoro sembrano quasi dispiaciuti dalla scoperta che nella pièce di Castellucci non c’è nessun lancio di escrementi sull’immagine di Cristo di Antonello da Messina.

Non se ne danno pace, sembrano smaniare perché quel “lancio” ci sia e siccome hanno bisogno di un Nemico da “bruciare” per avere un’identità (mentre la vera identità cristiana non si fonda su un Nemico, ma su un avvenimento, un avvenimento di misericordia), non riconoscono di essersi sbagliati chiedendo scusa.

Tanto meno tacciono, mettendo fine alla baraonda. No.

Cercano altri pretesti per “bruciare” il Nemico, demonizzato addirittura fino a essere chiamato “satanista”.

Io credo che sia questa la vera caricatura del cristianesimo. Una caricatura grottesca, mostruosa. Proprio una eventuale corsa dietro ai fondamentalismi di altre religioni – questa sì, davvero – rischierebbe di sporcare il Volto santo di Gesù.

Lo dico come cordiale e fraterno invito alla riflessione anche per quei buoni cattolici che in questi giorni credono, con la loro “indignazione” per Castellucci, di manifestare un sacro zelo verso il Volto del nostro Redentore…

Oltretutto si tratta di un’operazione che rischia di avere un connotato politico. Quindi attenti alle strumentalizzazioni…

Allora, poiché ci sono varie persone in buona fede che hanno abbracciato questa battaglia (questa fatwa) o che sono disorientate, che ritengono Gesù una loro proprietà (e non capiscono che Egli si dona ad ogni uomo e attrae a sé ogni uomo per un suo cammino personale) vorrei proporre un contributo autorevole di riflessione sul lavoro di Castellucci (cosa che in Italia non è stata fatta da nessuno).

Lo si può trovare – udite udite – sul sito della Chiesa francese. Perché lo spettacolo di Castellucci è andato in scena per la prima volta in Francia e sia il quotidiano cattolico La Croix che Radio Notre Dame (con diversi vescovi) hanno giudicato con molto interesse questa pièce teatrale.

Di fronte agli attacchi di fanatici, incapaci di rapportarsi alla cultura contemporanea con un giudizio cristiano, il vescovo di Poitiers, Monsignor Pascal Wintzer, Presidente dell’Osservatorio fede e cultura della Conferenza episcopale francese, ha scritto un bel saggio intitolato “A propos du spectacle de Romeo Castellucci ‘Sur le concept du visage du Fils de Dieu’ “.

Ecco il link

http://www.eglise.catholique.fr/conference-des-eveques-de-france/textes-et-declarations/a-propos-du-spectacle-de-romeo-castellucci-sur-le-concept-du-visage-du-fils-de-dieu–13056.html

Come vedete è il sito della “Eglise catholique” francese.

Per chi non conosce il francese consiglio di farselo tradurre. Serve a capire e quindi a giudicare.

Il fatto che alcuni “giornalisti cattolici”, invece di andare a cercare qui (nel sito della Chiesa francese che ebbe a che fare con le prime rappresentazioni della pièce di Castellucci) si siano messi a cercare come inquisitori – e rilanciare – dei brani di Castellucci da interpretare malevolmente, stravolgendone il senso (e senza mai pubblicare i bellissimi testi suoi che avrebbero fatto capire il suo retroterra) la dice lunga sulla mala fede di questa operazione.

Tesa non a cercare la verità, ma a fabbricare il Nemico, il Satana! Un’operazione che potrebbe essere fatta persino sul poema sacro di Dante – dove ci sono bestemmie e c’è pure la “merda” – e addirittura sulla Sacra Scrittura che abbonda di brani “scandalosi” e contiene espressioni blasfeme.

Qui, per chi non saprà tradurre tutto il saggio, mi permetto di mettere in italiano solo un brano di mons. Wintzer e il bellissimo pensiero di papa Benedetto XVI che egli cita.

Il vescovo scrive:

“Piuttosto che all’invettiva e alla condanna, è ad un lavoro che noi (cristiani) siamo chiamati, lavoro attraverso cui ciascuno si prende il tempo di comprendere chi è l’altro e cosa intende dire.

Il dialogo è un lavoro dello spirito e del cuore. Esso è improntato alla modestia. E’ ascolto benevolo. E’ parola che orienta verso il vero e il bello. Ripone la sua gioia nella ricerca condivisa della verità.

Il dialogo esclude sia la confusione (delle identità, nda), sia il disprezzo dell’altro. Ci invita a uscire dalla semplificazione secondo cui gli artisti sono dei provocatori, dei bestemmiatori. Ci chiama a prenderci il tempo di interrogarli o semplicemente di leggere ciò che dicono delle loro opere.

Una religione senza cultura diventa una religione senza curiosità e anche senza intelligenza”.

E ora vi traduco il brano di Benedetto XVI citato dal vescovo. E’ tratto dal suo discorso agli artisti, riuniti nella Cappella Sistina il 21 novembre 2009:

“Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare ‘scossa’, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo ‘risveglia’ aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere:

‘L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui’.

Gli fa eco il pittore Georges Braque: ‘L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura’. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza”.

Facendo tesoro di questo giudizio del Pontefice io credo – come Giuseppe Frangi – che sia veramente bello che finalmente (grazie alla pièce di Castellucci) sia riportato al centro della scena il Volto di Gesù e il dramma del dolore umano e la sua implorazione davanti al Salvatore del mondo.

Mi pare che quello del vescovo, responsabile della Conferenza episcopale francese per “fede e cultura”, sia l’unico giudizio meditato da parte del Magistero sul lavoro di Castellucci (infatti la lettera del monsignore della Segreteria di Stato, strumentalizzata da certuni, è una lettera di cortesia che cita il Papa solo riguardo a un criterio generale, non al caso specifico. E così pure fa il cardinale Scola).

Spero di aver dato un contributo al chiarimento.

Per quanto riguarda le veglie di preghiera “di riparazione” vanno sempre bene e sono preziose: magari però sarebbe bene “riparare” in riferimento ai nostri peccati (che sporcano il volto di Cristo), prima dei peccati altrui.

Per non essere come gli scribi e i farisei che amavano puntare il dito sugli altri e battere il pugno sul petto altrui anziché sul proprio.

A questa “gente perbene”, “sommi sacerdoti e anziani”, Gesù – scandalizzandoli – diceva: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio” (Mt 21, 31).

Antonio Socci

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10/02/2012 22:20
 
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La grande emergenza che ha toccato il Corno d’Africa, vedendo decine di migliaia di Somali scappare e arrivare al campo profughi di Dadaab, in Kenya, sembra non essere più in primo piano; il numero di rifugiati che arrivano al campo è drasticamente diminuito, ma un altro fattore si è insinuato, soprattutto a partire da ottobre 2011: Al Shabab, i miliziani integralisti islamici.

Da ottobre con il rapimento delle due lavoratrici spagnole di MSF e quattro locali kenioti, è scoppiata la nuova emergenza. Da allora il lavoro a Dadaab ha preso tutta un’altra forma, dove ora lo scopo non sembra più quella di soccorrere i disperati arrivati dalla Somalia, ma trovare tutte le misure per prevenire che il personale umanitario, la popolazione locale e gli stessi rifugiati siano vittime degli attacchi terroristici.

Le attività nei campi ci sono, ma bisogna stare molto attenti e seguire un protocollo di sicurezza drasticamente blindato. Vengono comunque garantite tutte le attività strettamente legate alla sopravvivenza delle persone, come la distribuzione di cibo, acqua e cure mediche. Ogni agenzia e ONG ha limitato il numero di personale a Dadaab, e si stanno prendendo ulteriori misure di sicurezza. Nel dramma, si sta cercando di non peggiorare la situazione già delicatissima, a volte, però, lavorare così ci appare quasi frustrante. Però non si possono correre rischi. Questo è chiaro.

Gli attacchi sono continui sia a Dadaab che sul confine conla Somalia, dove i bersagli primari sono i poliziotti e i civili innocenti. Il personale umanitario è sempre sotto pericolo di rapimenti; l’Ambasciata Italiana ha emanato il divieto per gli italiani di andare e risiedere a Dadaab. Altre misure sono state prese dalle altre ambasciate. La situazione non è certo facile e non è bella, dal combattere la fame, si è passati a ben altro ancora meno controllabile.

In tutto questo anche le attività di AVSI hanno dovuto seguire un nuovo corso, rallentando un pochino. I diversi progetti di costruzione di scuole, asili, librerie e formazione di insegnanti, finanziati da vari donatori come UNHCR, UNICEF Cooperazione Italiana e BPRM, che pensavamo di concludere con la fine di dicembre, stanno inevitabilmente subendo dei ritardi. Finchè  vige il divieto per tecnici e ingegneri di valutare e monitorare il lavoro direttamente nei campi, è impossibile procedere. Se prima si poteva girare per i campi profughi ogni giorno e quasi senza problemi, ora ogni visita deve essere scortata e non può avvenire più di due volte per settimana. Se poi gli episodi di violenza si inaspriscono ancora di più, può succedere che chiedano di non uscire neppure dagli uffici.

Mentre AVSI stava mettendo a punto, per esempio, la formazione con un nuovo gruppo di 210 insegnanti, in collaborazione con il Centro Educativo Permanente di Kampala e la Mount Kenya University, quasi tutto il lavoro è stato sospeso proprio per problemi di sicurezza. Rimandato a febbraio anche un altro gruppo di 60 insegnati che avrebbe dovuto iniziare un corso sulla capacity building, ovvero sulle proprie capacità. C’è troppa paura.

Mentre una parte del mondo attende, proprio per evitare di creare ulteriori problemi, c’è una vita, a Dadaab, che continua. E tutto questo è inevitabile. I bambini vanno a scuola, ma la tensione è palpabile. Ma nonostante la grande paura per un futuro incerto, tutto il nostro personale qui a Dadaab è sempre positivo e volenteroso. Tutti sono orgogliosi del grande lavoro fatto fino ad ora, tutti insieme, e tutti sanno bene che nulla deve andare perduto.

Victoria Martinengo, AVSI a Dadaab, Kenya

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11/02/2012 22:32
 
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Troppi antidepressivi, all’uomo secolarizzato manca il senso del vivere

Il 18 dicembre scorso facevamo notare come sempre più frequentemente il termine “secolarizzazione” faccia rima con “depressione”, nel senso che nei Paesi più secolarizzati si verifica puntualmente un aumento di cure antidepressive, psicofarmaci, abuso di stupefacenti ecc… Secondo il filosofo laicoPietro Barcellona il motivo è proprio quello esistenziale, ovvero l’incapacità di trovare un significato unitario e adeguato nello stare al mondo. Senza un orizzonte di Senso ultimo l’uomo perde la bussola, innanzitutto di sé stesso.

Recentemente ne ha parlato anche il dott. Maurizio Soldini, medico, filosofo, esperto di bioetica, il quale svolge l’attività di clinico medico presso la “Sapienza” Università di Roma. Prendendo spunto dal rapporto sullo stato sanitario italianopresentato pochi giorni fa dal ministero della Salute, si è domandato se il vertiginoso aumento dell’uso di antidepressivi nell’ultimo decennio corrisponda più a un disadattamento spirituale, piuttosto che psico-fisico.

Ne ha così approfittato per introdurre una figura troppo poco considerata, ovvero Viktor Emil Frankl, neurologo e psichiatra austriaco, fondatore della logoterapia. La logoterapia è «un approccio psicoterapeutico che si basa sull’analisi esistenziale e che cerca di ricoprire il senso (logos) di ogni esistenza umana». Il punto fondamentale è l’unicità e irripetibilità dell’uomo, questione molto a cuore di Frankl. La vita di un uomo non è infatti riducibile alla vita fisica e biologica, ovvero a quello che viene determinato dal suo Dna. Il suo essere è un esser-ci che non può fermarsi alle contingenze spesso negative e alle prospettive naturalistiche. Frankl, continua Soldini, «era convinto che la sofferenza, il male, la morte non siano annichilimenti, ma all’opposto possano dare l’input per mettere in moto l’uomo alla ricerca di senso. Egli stesso aveva sperimentato nei campi di concentramento nazisti come la sopravvivenza fosse direttamente proporzionale alla capacità di dare un senso attraverso la fede anche a una delle esperienze più atroci a cui potesse andare incontro un essere umano, avendo così avuto lo spunto delle sue teorie».

Oggi, conclude, «per sconfiggere la depressione, che forse in alcune circostanze è piuttosto angoscia esistenziale, abbiamo sì bisogno di un trattamento farmacologico, ma in casi più che controllati. In genere, sia da parte dei terapeuti sia da parte dei “pazienti”, il problema è da considerare anche con un atteggiamento basato su dinamiche antropologiche ed esistenziali. Il fine è quello di ri-trovare e dare un senso all’esistenza per quanto delimitata nella natura, proprio per cercare di trascendere, per quanto possibile, questa stessa natura». Dare un vero senso al vivere,questa è la grande sfida dell’uomo emancipatosi da Dio.

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13/02/2012 20:40
 
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La morte di Whitney Houston 

“Whitney Houston aveva una depressione scatenata probabilmente da un dolore del passato mai risolto. Molti personaggi dello spettacolo hanno fatto la sua fine cercando rifugio nell’alcool e nelle droghe proprio per la necessità di coprire qualcosa che ha segnato la loro vita”. Lo dice la dottoressa Paola Vinciguerra, psicologa, psicoterapeuta, presidente dell’Eurodap, Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico.

 

“Il successo planetario che ha avuto ha reso solo apparentemente felice questa donna - spiega la dottoressa Vinciguerra – Un evento, nel suo caso la fine del matrimonio, ha riportato alla luce uno stato psicologico irrisolto che le ha fatto prendere una strada buia dalla quale è molto difficile uscire se non si intraprende una psicoterapia invece di usare unicamente psicofarmaci che tentano di addormentare il dolore ma spesso addormentano anche la nostra coscienza, impedendoci di avere consapevolezza delle nostre azioni”.  

“Per la Houston nulla  di  quello che sembrava bellissimo e appagante è riuscito  più a darle la sensazione di pace e serenità – ha aggiunto l’esperta – Tutto per questa donna è diventato privo di significato. Ha cercato in qualsiasi modo di non sentire quel dolore che a dispetto dei farmaci e dell'alcool ha continuato ad invaderla”.  
“Questa è la storia di moltissime persone dello spettacolo – aggiunge la Vinciguerra anche responsabile dell’UIAP, Unità Italiana Attacchi di panico, presso la Clinica Paideia di Roma -  Spesso il successo può riuscire a farci sentire pieni, potenti, ma se lo usiamo per nascondere i dolori del passato non può essere sufficiente a dare pienezza e serenità. Si vive in una continua sensazione di tensione, paura di perdere il proprio status”.  Secondo la Vinciguerra “questo accade a tutte le persone che assumono comportamenti disfunzionali solo per tentare di sentirsi meno soli, per avere consenso da chi vive loro intorno ed allontanarsi da esperienze emotive negative del passato. Ma i dolori, i vuoti del nostro passato se non risolti, se non separati dalla realtà che stiamo vivendo, riappaiono aggredendoci alle spalle ed atterandoci come è successo alla Houston”.


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15/02/2012 13:43
 
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FESTIVAL DI SANREMO
Celentano fa il tribuno e perde la testa

Nessuno avrebbe mai pensato di bombardare il teatro Ariston, durante Sanremo. Soprattutto di discorsi biliosi. Celentano, invece ha pensato di travolgere Sanremo in un delirio di onnipotenza: e chi se ne importa dei colleghi artisti, della gara (che all’inizio si è pure inceppata) di Morandi, Papaleo e di tutto il Festival.

Nel bel mezzo della gara, suonano le sirene, Morandi scappa dal palco, l’Ariston si trasforma in un campo di battagli tra colpi di mitra, bombardamenti aerei, feriti, gente che fugge dal teatro. Poi appare lui, rosso in viso, in trench e cravatta a righe. E lascia basiti. Comincia a fare la predica ai preti perché «morire se la predica si capisse perché non sanno regolare l’audio negli altoparlanti. Sembra quasi che i preti dicano: noi la predica l’abbiamo fatta poi chi se ne frega se gli ultimi in fondo non sentono. Il Vangelo è stato chiaro, beati gli ultimi, perché saranno nel regno dei cieli». Poi sostiene di non sopportare neanche i frati «perché nei loro argomenti e dibattiti tv, non parlano mai della cosa più importante: il motivo per cui siamo nati. Insomma, non parlano mai del Paradiso. Danno l’impressione che l’uomo sia nato solo per morire».

Poi, ecco la sua vendetta contro chi ha «osato» fare delle pacate e civilissime critiche sulla sua decisione di dare il suo cachet in beneficenza. Celentano non perdona. E attacca a testa bassa: «Giornali inutili come Avvenire e Famiglia Cristiana andrebbero chiusi definitivamente perché si occupano di politica e di beghe del mondo anziché di cose confortanti che Dio ci ha promesso». E viene il serio dubbio che Celentano non li abbia mai letti davvero. Ma lui non vede e non sente. Vuole vendicarsi e lo fa (tanto la Rai gli ha dato carta bianca): «Avvenire e Famiglia Cristiana sono testate ipocrite come le critiche che fanno a uno come don Gallo che ha dedicato la sua vita per aiutare gli ultimi». Ora che si è sfogato, Celentano, fra una cantatina blues, e una vecchia hit, si incarta tristemente in discorsi sull’alta velocità, sul referendum bocciato dalla consulta e in una penosa gag su destra e sinistra con Pupo e il povero Morandi. Poi si lancia in una filippica a favore del martirio di Gesù e intona, come avevamo previsto, Il forestiero, basato sul Vangelo della Samaritana. Mentre ancora sta parlando su Facebook, Twitter e sui blog monta la protesta. E fiocca la solidarietà per i giornali cattolici per i quali Celentano ha chiesto la chiusura.

«Per fortuna i giornali non dipendono da Sanremo e ancor meno da Celentano le cui battute senza senso fanno ridere chi può godersi Sanremo ma non cambiano un paese che ha bisogno oggi più di ieri di giornali di idee e di identità come Avvenire e Famiglia Cristiana ma anche di tanti altri che sono l’opposto e il contrario». Lo dice il segretario della Fnsi Franco Siddi, commentando le parole di Celentano a Sanremo. «Questa volta neanche per paradossi si riesce a dare un senso a quello che un grande artista come Celentano dopo tanta attesa dice. Ha perso il senso che in altri tempi sapeva invece recuperare. Per fortuna le bussole sono altre», conclude Siddi.

Immediata solidarietà anche dal Movimento Liberi Giornalisti, componente rappresentata sia al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti, sia nella FNSI (il sindacato unico dei giornalisti).

Angela Calvini

da: Avvenire
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19/02/2012 21:09
 
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Chiesa e ICI: tanto rumore per nulla, ennesimo flop dei radicali

Il governo italiano presenterà un emendamento in merito all’esenzione dall’ICI (imposta comunale sugli immobili) riservata agli enti non commerciali, quindi anche alla Chiesa. In sostanza, si continuerà a pagare l’Ici su quegli immobili in cui si svolgono attività commerciali, come la Chiesa ha sempre fatto. La chiarificazione è per quanto riguarda le attività “miste” (ovvero luoghi di culto ma anche con fini commerciali, per esempio), detta anche “zona grigia”: Chiesa e organi no profit in questi casi pagheranno l’imposta sulla frazione dell’immobile dedicata ad attività commerciali. La Cei ha accolto con favore il chiarimento, dato che lo stesso era stato auspicatoanche dal cardinale Angelo Bagnasco. Tuttavia da tempo la campagna anticlericale sull’ICI si è silenziata (è durata giusto un paio di settimane, al contrario di tante altre). Questo perché è stata smontata in fretta: l’esenzione dell’Ici da parte della Chiesa cattolica toglie allo Stato circa 100 milioni di euro, una cifra assolutamente ininfluente per il bilancio pubblico, e che tra l’altro non è imputabile alla sola Chiesa ma comprende anche tutti gli altri enti no profit.

Pensare che il Patito Radicale e Mario Staderini parlavano di 1-2 miliardi di euro!! Certo, non tutti hanno avuto l’onestà di ammetterlo ma almeno in molti hanno taciuto. Altri invece, come il vaticanista de “Il Fatto Quotidiano”Marco Politi, fanno tuttora finta di nulla e continuano a parlare di miliardi e miliardi. Eppure la verità è semplice, Milano Finanza scrive«Tanto rumore per nulla. O, meglio, per poco. Per mesi la polemica sull’esenzione dal pagamento dell’Ici da parte della Chiesa cattolica ha tenuto banco. Soprattutto nelle ultime settimane, dopo che il governo presieduto da Mario Monti è stato costretto ad aumentare il prelievo sulle case, tassando di nuovo anche le prime abitazioni [...]. La valutazione più attendibile è sempre apparsa quella dell’Anci, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, che aveva indicato in circa 450 milioni l’ammontare massimo ottenibile applicando l’Ici anche agli immobili della Chiesa». Ma in realtà «l’esenzione della Chiesa costa solo 100 milioni allo Stato».

Lo ha annunciato il sito istituzionale del ministero dell’Economia, dicastero del quale il premier Monti ha l’interim:«sulla base dei dati presi in esame, è stata ricostruita la platea degli enti fruitori della misura Ici e dei relativi immobili con una perdita di gettito pari a circa 100 milioni, ottenuta simulando l’abrogazione delle disposizioni in esame». Perfino il quotidiano “l’Unità” ha abbandonato Mario Staderini ai suoi deliri. Ieri si leggeva«Continuare a parlare di un miliardo e mezzo/due imputabili solo alla Chiesa Cattolica a cosa serve?». La domanda è ovviamente retorica, si sa benissimo qual’è lo scopo dei radicali e di Politi. Continua così l’articolo: «Tenuto conto della presenza storica della Chiesa Cattolica nel nostro Paese, le cifre fornite dal ministero dell’Economia confermano ciò che tutti, tranne alcuni giornali, sanno: che se un’istituzione ecclesiale possiede una pensione, una trattoria, un negozio o una libreria, paga l’Ici fino all’ultimo centesimo; che gi eventuali abusi sono facilmente risolvibili con l’applicazione delle leggi vigenti; che il vero obiettivo della «campagna-Ici» sembra la disarticolazione di quel po’ diprotezione sociale rimasta in piedi in Italia, grazie alla ricca rete di collaborazioni tra istituzioni, mondo confessionale, mondo laico e anche iniziativa privata».

Tutto questo è stato comunque ampiamente confermato anche Franco Bechis, vicedirettore di “Libero” invitato daGianluigi Nuzzi nel suo programma “Gli Intoccabili” in onda su LA7, proprio durante la puntata sul noto “affare Viganò”. Mentre la vicenda su quest’ultimo è stata affrontata con onestà, le comiche si sono viste appena si è toccato il tema dell’ICI: il conduttore, autore di “Vaticano S.P.A.” ha presentato Bechis come “l’esperto che aiuta a chiarire dove stia la verità”, ma quando questo esperto ha spiegato come stanno effettivamente le cose (i famosi 100 milioni al posto dei 2 miliardi proclamati dai radicali), Nuzzi si è visibilmente innervosito, forse pentendosi di aver chiamato uno davvero esperto. 

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04/03/2012 15:28
 
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“Dio non si lascia mai vincere in generosità”. I missionari ci spiegano perché convertirci a Cristo


Padre Piero Gheddo, oltre che un mio grandissimo amico, è una figura straordinaria per la sua fede cristiana luminosa, entusiasta e intelligente. Anche oggi, a 83 anni, trasmette questa sua letizia.

Per decenni, da direttore della rivista del Pime, Mondo e missione, e anche dopo, è stato – ed è tuttora – la voce in Italia dei missionari sparsi in tutto il mondo, che ha instancabilmente girato.

Spesso è stato il primo a riferire di tragedie che si stavano consumando nell’indifferenza dell’Occidente (penso, a quello che accadde in Indocina, negli anni Settanta).

In questo articolo – dove riferisce il racconto di un missionario, padre Giuseppe Fumagalli - ci spiega cosa significa convertirci al cristianesimo. Vi consiglio di leggerlo.

antonio socci

                                °                       °                         °                      °

Mancano quaranta giorni alla Pasqua e la Chiesa ci invita a prepararci per risorgere con Cristo ad una vita nuova. Il Vangelo di San Marco, col quale inizia la Quaresima, ci presenta Gesù che, dopo l’arresto di Giovanni il Battista, va nel deserto e vi passa quaranta giorni di preghiera, di tentazioni e di digiuno; poi, percorre i villaggi della Galilea annunziando il suo messaggio: “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo” (Marco 1, 12-15).

E’ il messaggio che la Chiesa rilancia nella Quaresima ed è anche l’essenza del cristianesimo: credere in Cristo e nel suo Vangelo e convertire la nostra vita quotidiana alla vita nuova che il Vangelo ci propone.

Nel mondo non cristiano, dove i missionari vivono e lavorano, è chiaro cos’è il cristianesimo: il passaggio dalla religione tradizionale alla fede e alla vita in Cristo, unico Salvatore dell’uomo e dell’umanità.

Il “primo annunzio” ai non cristiani è veramente l’annunzio di una fede  nuova, di una vita nuova.

Ma, in concreto,  cosa significa “convertirsi a Cristo?”.

Ho fatto questa domanda a un missionario del Pime, padre Giuseppe Fumagalli, che da quarantatre anni vive fra i “felupe” nel nord della Guinea Bissau, una tribù nuova, dove il Vangelo è stato portato negli anni cinquanta dal suo predecessore padre Spartaco Marmugi.

Siamo in una situazione missionaria: il primo annunzio del Vangelo ai pagani. La predicazione di padre Fumagalli è come quella di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”.

Padre Zé (Giuseppe) dice:

“La conversione dei Felupe è rottura col passato, inizio di una vita nuova con Cristo: quindi è sacrificio, rinunzia, sofferenza, tentazione di tornare ai costumi pagani del passato, una lotta quotidiana contro se stessi.

Chi decide di convertirsi sa che deve perdonare le offese, abbandonare ogni sentimento di vendetta; lasciare il culto degli spiriti, non credere più agli stregoni; avere una sola moglie ed esserle fedele, amare e dedicarsi alla propria famiglia, rispettando la moglie e i figli; non rubare, non commettere ingiustizie, ecc.

Il catecumeno sa che spesso va incontro alla persecuzione o alla marginalizzazione nel villaggio, perché va contro-corrente rispetto alla comunità in cui vive.

Però Dio lo aiuta e spesso posso dire che continua ad impegnarsi in questo cammino di conversione, anche perchè consolato dai buoni risultati che ottiene vivendo la vita cristiana: anzitutto si libera dalla paura degli spiriti cattivi e del malocchio, che blocca la gente comune.

Il cristiano sa e crede che è sempre nelle mani di Dio e acquista una sicurezza e coscienza viva della sua fede e dei vantaggi che ne derivano, che sono tanti altri.

“Insomma – continua padre Zé – a parità di condizioni, il cristiano vive meglio e si sviluppa di più del non cristiano, io lo sperimento spesso. Ha, come si dice, una marcia in più, non ha più paura del futuro e del mistero nel quale è immersa tutta la vita dell’uomo. Dio non si lascia mai vincere in generosità”, dice padre Zè.

Il quale aggiunge che tra i felupe “la conversione a Cristo è una profonda rivoluzione nella vita dell’uomo, della famiglia, del villaggio: è la rivoluzione portata da Cristo, quella che “Dio è amore”, che cambia tutta la vita dell’uomo,della famiglia, dell’umanità.

Non una rivoluzione violenta contro altri, ma una rivoluzione non violenta che incomincia nell’interno del cuore dell’uomo, quando egli decide di credere nel Vangelo e di convertirsi a Cristo: passare dall’egoismo all’altruismo, dall’odio all’amore.

Oggi nella tribù dei felupe i cattolici battezzati sono circa 2.300 (altri sono nel catecumenato di 2-3 anni)  su circa 20.000 contribali in Guinea, ma la tribù è più presente nel vicino Senegal. Non sono più perseguitati, anzi sono ammirati perché portano la pace fra i villaggi, si interessano del bene pubblico, hanno famiglia più unite, sono disponibili ad aiutare i più poveri”.

 Tutto questo avviene nel mondo “pagano”. Al contrario, nel nostro mondo post-cristiano non è più molto chiaro cosa vuol dire “cristianesimo” e “convertirsi a Cristo”, che è il messaggio della Quaresima.

Siamo sommersi da così tanti messaggi, problemi, discussioni, cattivi esempi e scandali, molte voci, ipotesi e proposte, che per molti non è più chiaro cosa vuol dire essere cristiano.

Un anno fa, il direttore dell’editrice Lindau di Torino, il dott. Ezio Quarantelli, mi ha chiesto di scrivere un libro, che poi ha pubblicato: “Padre, lei ha viaggiato molto e conosce tante situazioni umane. Mi scriva un libro in cui spiega chiaramente e in modo molto concreto come mai dobbiamo convertirci a Cristo, cosa vuol dire  e quale scopo ha questa conversione. Non con un discorso teologico e filosofico, ma in modo comprensibile e direi giornalistico, citando anche le sue esperienze; e non mi parli della vita eterna, ma della vita in questo nostro mondo”.

Ho scritto il volume “Meno male che Cristo c’è”, che grazie a Dio, mi dicono che va bene nelle vendite. Non ha altro scopo che quello richiestomi dall’amico Quarantelli.

Il nostro problema, di noi battezzati e anche di noi preti, parlando in generale, è che noi ci crediamo già convertiti, per cui la parola “conversione” quasi non ha più significato.

Siamo stati battezzati, cresimati, riceviamo l’Eucarestia, andiamo a Messa, preghiamo e se guardiamo al mondo attuale ci consideriamo dei buoni cristiani.

Io stesso sono prete e missionario da 59 anni e se guardo alla mia vita, ringrazio il Signore della vocazione al sacerdozio e alla missione e di tutte le grazie che mi ha dato. Gli chiedo perdono dei miei peccati e poi sono tentato di pensare che, tutto sommato, la mia vita l’ho spesa per Cristo e per la Chiesa e posso starmene tranquillo.

Questo l’errore, credo abbastanza comune. Il prete, come il cristiano, non va mai in pensione, non dice mai di essere arrivato alla meta della vita cristiana, che è la conversione a Cristo, l’imitazione di Cristo.

Come cristiani, noi ricominciamo sempre una vita nuova ogni mattino e soprattutto nel giorno di Pasqua.

La giovinezza della vita cristiana è questa: ricominciare sempre con entusiasmo il cammino che porta all’amore e all’imitazione di Cristo, correggendo a poco a poco le nostre tendenze cattive, i nostri errori di giudizio e via dicendo. Tutto questo non è solo frutto della nostra buona volontà, ma è una grazia che Dio ci dona, se gliela chiediamo.

Padre Piero Gheddo

[Modificato da Credente 04/03/2012 15:29]
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07/03/2012 21:07
 
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Recentemente, la Fondazione italiana antiusura, ha lanciato un sensato e giusto grido di allarme contro il gioco d'azzardo che ormai dilaga dappertutto in Italia. Nei tabaccai notiamo file di persone pronte ad investire persino i risparmi su gratta e vinci o lotterie istantanee. 

            Giocare e scommettere ha sempre fatto e fa, parte dell'umano, ma oggi siamo arrivati ad una dimensione patologica del fenomeno. Ne parliamo col noto psichiatra professor Alessandro Meluzzi. Meluzzi. Il gioco d'azzardo può essere considerato fenomeno di dipendenza? "crea dipendenza, come alcool, farmaci e tabacco. Questo fenomeno in espansione allarmante, si chiama ludopatia. 

        E' una vera ossessione compulsiva, una patologia alla pari di altre ugualmente pericolose alla salute". Che tipo di dipendenza determina? "fa distorcere la realtà,nel senso che si pensa che il gratta e vinci possa cambiare la vita. Queste situazioni, sono in proporzione con i fenomeni di grave crisi economica. 

       Maggiore è la depressione finanziaria e maggiore è l'accanimento col quale si gioca a queste lotterie. La speranza, ovviamente, è quella di aggiustare le proprie finanze e accade che si sprechi denaro in modo banale".

Sarebbe il caso di proibirne la promozione?

"non lo credo. Il proibizionismo non ha mai portato a risultati importanti ed anzi, istiga maggiormente a giocare associando il senso del proibito. Penso che davanti a questi fenomeni debba prevalere il buon senso ed anche appropriate cure".

Lo Stato ci guadagna:

"siamo davanti ad una vera e propria tassa sulla speranza e non è molto educativo. Del resto, lo Stato guadagna anche sul fumo, la cui pericolosità non è da meno e sugli alcolici. Ritengo che anche con i gratta e vinci debba prevalere il senso di responsabilità".

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07/03/2012 21:18
 
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DIFENDIAMO IL  RIPOSO DOMENICALE

A livello europeo, si nota da parte dei cattolici, un generale movimento di opinione che va contro la scriteriata decisione di lasciare aperti i negozi anche di domenica. Il problema, in realtà, riguarda la stessa idea del lavoro domenicale. Se è vero che ci sono alcune categorie che per forza devono violare il riposo domenicale (guidatori di treni, aerei, autobus, medici, giornalisti), è certamente innegabile che tutti abbiano diritto al risposo nel giorno del Signore. Per un momento, lasciamo da parte il nostro essere cattolici. Ma anche un lavoratore islamico o ebreo, ha il sacrosanto diritto al risposo, a dedicare la domenica alla sua famiglia, ai suoi cari. L'uomo non è un animale da soma e il lavoro serve per vivere, mai si viva solo per l'idolatria del lavoro. Su questo punto, il mito liberista sfrenato, ha fallito. Le società capitaliste sono in confusione, i valori della relazioni interpersonali scadenti e questo si deve al fatto che ci si conosce poco, anche per la frenesia del lavoro.

    Da un'apertura domenicale, per altro verso, riceverebbero grave danno i piccoli commercianti, con tutte le gravi ripercussioni sull'economia e sul lavoro.

Ora parliamo da cattolici. Il cattolico ha il diritto a dedicare a Dio il suo giorno libero, la domenica, senza l'assillo del lavoro.

     E' molto più importante servire Dio che il titolare, ma questo il governo Monti, come altri governi, non lo intende.

La posizione dei governi è: più negozi aperti, maggiore la possibilità di guadagno. Un errore colossale.

      Non dipende dalla quantità di ore di apertura, ma dalla politica economica.

A che cosa servono negozi aperti anche la domenica o per ventiquattro ore, se a questo non corrisponde un reale benessere economico per tutti e non solo per pochi?

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19/03/2012 09:21
 
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Per la crescita del Pil non bisogna imitare la Cina, ma tornare alle radici cristiane 

(quando l’Italia cresceva al 6 per cento annuo)

 

Monopolizzano la scena ormai da mesi: la “signora crescita” e il “signor pil”. E inseguiamo tutti drammaticamente il loro matrimonio. Anche in queste ore sono al centro delle trattative fra partiti, governo e sindacati.

La politica italiana si è perfino suicidata sull’altare di questa nuova divinità statistica da cui sembra dipendere il nostro futuro. Se però alzassimo lo sguardo dalla cronaca dovremmo chiederci: chi è questo “signor Pil”?

I manuali dicono che è il “valore di beni e servizi finali prodotti all’interno di un certo Paese in un intervallo di tempo”. Ma fu proprio l’inventore del Pil, Simon Kuznets, ad affermare che “il benessere di un Paese non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”.

Lo ha ricordato ieri Marco Girardo, in un bell’articolo su “Avvenire”, aggiungendo che ormai da decenni economisti e pensatori mettono in discussione questo parametro: da Nordhaus a Tobin, da Amartya Sen a Stiglitz e Fitoussi.

KENNEDY LO SAPEVA

Girardo ha riproposto anche un bell’intervento di Bob Kennedy, che già nel 1968, tre mesi prima di essere ammazzato nella campagna presidenziale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, formulò così il nuovo sogno americano:

“Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Non è una discussione astratta. Infatti con l’esplosione e lo strapotere della finanza – che nei primi anni Ottanta valeva l’80 per cento del Pil mondiale e oggi è il 400 per cento di esso – questo “erroneo” Pil è diventata la forca a cui si impiccano i sistemi economici, il benessere dei popoli e la sovranità degli stati.

Oggi la ricchezza finanziaria non è più al servizio dell’economia reale e del benessere generale, ma conta più dell’economia reale e se la divora, la determina e la sconvolge (e con essa la vita di masse enormi di persone).

Anche perché ha imposto una globalizzazione selvaggia che ha messo ko la politica e gli stati e che sta terremotando tutto.

PRIGIONIERI DELLA FINANZA

La crescita del Pil o la sua decrescita decide il destino dei popoli, è diventata quasi questione di vita o di morte e tutti – a cominciare dalla politica, ridotta a vassalla dei mercati finanziari – stanno appesi a quei numerini.

Dunque le distorsioni e gli errori che erano insiti nell’originaria definizione del Pil rischiano di diventare giudizi sommari e sentenze di condanna per i popoli.

Per questo, l’estate scorsa, nel pieno della tempesta finanziaria che ha investito l’Italia, un grande pensatore come Zygmunt Bauman, denunciando “un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo”, descriveva così l’assurdità della situazione: “C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca”.

Nessuno ovviamente può pensare che non si debba cercare la crescita del Pil (l’idea della decrescita è un suicidio). Il problema è cosa vuol dire questa “crescita” e come viene calcolata oggi. Qui sta l’assurdo.

Bauman faceva un esempio:

se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito”.

Con questa assurda logica – per esempio – fare una guerra diventa una scelta salutare perché incrementa il pil, mentre avere in un Paese cento Madre Teresa di Calcutta che soccorrono i diseredati è irrilevante.

Un esempio italiano: avere una solidità delle famiglie o una rete di volontariato che permettano di far fronte alla crisi non è minimamente calcolato nel Pil.

Eppure proprio noi, in questi anni, abbiamo visto che una simile ricchezza, non misurabile con passaggio di denaro, ha attutito dei drammi sociali che potevano essere dirompenti.

IL PAPA CI ILLUMINA

Ciò significa che ci sono fattori umani, non calcolabili nel Pil, che hanno un enorme peso nelle condizioni di vita di una società e anche nel rilancio della stessa economia.

Perché danno una coesione sociale che il mercato non può produrre, ma senza la quale non c’è neppure il mercato.

Ecco perché Benedetto XVI nella sua straordinaria enciclica sociale, “Caritas in Veritate”, uscita nel 2009, nel pieno della crisi mondiale, ha spiegato che “lo sviluppo economico, sociale e politico, ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano di fare spazio al principio di gratuità”, alla “logica del dono”.

Ovviamente il Papa non prospetta “l’economia del regalo”. Il “dono” è tutto ciò che è “gratuito”, non calcolabile e che non si può produrre: l’intelligenza dell’uomo, l’amore, la fraternità, l’etica, l’arte, l’unità di una famiglia, la carità, l’educazione, la creatività, la lealtà e la fiducia, l’inventiva, la storia e la cultura di un popolo, la sua fede religiosa, la sua laboriosità, la sua speranza.

MIRACOLO ITALIANO

Se vogliamo guardare alla nostra storia, sono proprio questi fattori che spiegano come poté verificarsi, nel dopoguerra, quel “miracolo economico” italiano che stupì il mondo.

Tutti oggi parlano di crescita (e siamo sotto lo zero), ma come fu possibile in Italia, dal 1951 al 1958, avere una crescita media del 5,5 per cento annuo e dal 1958 al 1963 addirittura del 6,3 per cento annuo?

Non c’erano né Monti, né la Fornero al governo. Chiediamoci come fu possibile che un Paese sottosviluppato e devastato dalla guerra balzasse, in pochi anni, alla vetta dei Paesi più sviluppati del mondo.

Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130 per cento, quattro volte più di Francia e Inghilterra, rispettivamente al 30 e al 32 per cento (se assumiamo che fosse 100 il reddito medio del 1952, nel 1970  noi eravamo a 234,1).

E’ vero che avemmo il Piano Marshall, ma anche gli altri lo ebbero. Inoltre noi non avevamo né materie prime, né capitali, né fonti energetiche. Eravamo usciti distrutti e perdenti da una dittatura e da una guerra e avevamo il più forte Pc d’occidente che ci rendeva molto fragili.

Quale fu dunque la nostra forza?

E’ – in forme storiche diverse – la stessa che produsse i momenti più alti della nostra storia, la Firenze di Dante o il Rinascimento che ha illuminato il mondo, l’Europa dei monaci, degli ospedali e delle università: il cristianesimo.

 Pure la moderna scienza economica ha le fondamenta nel pensiero cristiano, dalla scuola francescana del XIV secolo alla scuola di Salamanca del XVI.

Noi c’illudiamo che il nostro Pil torni a crescere se imiteremo la Cina. Ma la Cina – anzi la Cindia – non fa che fabbricare, in un sistema semi-schiavistico (quindi a prezzi stracciati), secondo un “know how” del capitalismo che è occidentale. Scienza, tecnologia ed economia sono occidentali. L’Oriente copia.

ECCO IL SEGRETO

Proprio l’Accademia delle scienze sociali di Pechino, richiesta dal regime di “spiegare il successo, anzi la superiorità dell’Occidente su tutto il mondo”, nel 2002, scrisse nel suo rapporto: “Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale”.

Scartate la superiorità delle armi, poi del sistema politico, si concentrarono sul sistema economico: “negli ultimi venti anni” scrissero “abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l’Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla vita democratica. Non abbiamo alcun dubbio”.

Loro lo sanno. Noi non più.

 

Antonio Socci

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02/04/2012 07:57
 
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BENEDETTO XVI A L'AVANA
«I cubani? Conquistati dalla bellezza»
di Luca Fiore
29/03/2012 - Il racconto di monsignor Luigi Manenti, missionario a San Antonio del Sur. Un posto dove si insegnava che la religione era il male. Eppure oggi chi è stato dal Papa...Monsignor Luigi Manenti.
È appena tornato a casa dall’ospedale dove ha portato un ammalato. Monsignor Pierluigi Manenti, missionario fidei donum a Cuba dal 1998, risponde al telefono quando è appena finita la diretta tv della messa di Benedetto XVI a L’Avana. È parroco a San Antonio del Sur, un piccolo villaggio nella provincia di Guantanamo, ad Est del Paese. Il 26 marzo è stato a Santiago per la celebrazione con il Papa. «Da San Antonio eravamo in 530 con 16 corriere. Dalla provincia di Guantanamo, in tutto, sono partiti 110 tra camion e pullman», racconta don Manenti: «Siamo partiti alle 2 del mattino del 26 e siamo arrivati a casa alle 5 della mattina del giorno dopo». 
In un primo momento le autorità di San Antonio hanno cercato di scoraggiare i pellegrini: «Dicevano che chi non fosse andato a lavorare per seguire la visita del Papa avrebbe avuto problemi. Poi però il giorno prima della partenza hanno fatto marcia indietro e hanno incoraggiato la gente ad andare. Così tutti in paese volevano venire. Sia i parrocchiani, sia chi in chiesa non ci viene. Abbiamo escluso i bambini e gli anziani, per ragioni di resistenza fisica». 
Il viaggio verso Santiago è stato uno spettacolo. In strada la gente è scesa anche solo per vedere la carovana dei pellegrini e, durante la notte, è stata sveglia per vedere l’esodo. All’andata e al ritorno. «Tutti erano davvero impressionati. Nessuno di quelli che sono venuti con me aveva assistito alla visita di Giovanni Paolo II nel 1998. Era la prima volta che vedevano di persona il Papa. Non l’avevano mai sentito parlare. È stata davvero una grande festa. Una cosa così non l’avevano mai vista, mai avevano partecipato a un evento del genere. Difficilmente se lo dimenticheranno». 
Non c’è stato ancora tempo di riflettere bene sul quello che è accaduto. Ma per don Pierluigi una cosa è chiara: «Il messaggio che ci ha portato il Papa è quello dell’Incarnazione. Cristo che è diventato come noi. Un uomo. E quindi Dio non è più uno sconosciuto, ma si può incontrare come si poteva incontrare duemila anni fa. Adesso bisogna prenderci un po’ di tempo e tornare sulle sue parole. Come quando uno mangia una cosa buonissima: bisogna avere il tempo per digerirla. Il lavoro che faremo sarà riprendere con calma quello che ha detto a Santiago e quello che sta dicendo e dopo L’Avana: la verità vi farà liberi».
È un momento storico per l’isola. I cubani stanno vivendo qualcosa che fino a qualche anno fa non potevano neanche immaginare: «Negli anni duri a Cuba si insegnava che la religione danneggiava la persona. E ora, di colpo, la gente si sorprende a dire “ma guarda che bello”. Lo dicono tutti: “Che bello, che bello...” È importante riprendere ciò che ci è stato detto. Perché questa sorpresa di bellezza venga giudicata e capita. E fatta propria».
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14/04/2012 08:20
 
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Stiamo vivendo un momento storico molto difficile nella nostra Italia.

Non possiamo e non dobbiamo ignorare le principali emergenze: il lavoro e le scarse disponibilità economiche delle famiglie impoverite da un sistema sociale malato e da una serie interminabile di iniquità di cui sono piene le cronache quotidiane.

Scorrendo la tragica lista che segue, che si riferisce a casi accaduti nei soli ultimi 2 mesi, ci rendiamo conto della drammaticità della situazione:

05/02/2012: San Remo, 47 anni, elettricista si spara.
26/02/2012: Firenze, 65 anni, imprenditore si impicca.
02/03/2012: Ragusa, commerciante tenta di darsi fuoco.
02/03/2012: Pordenone, 46 anni, magazziniere si suicida
... 09/03/2012: Genova, 45 anni disoccupato, sale su un traliccio della corrente 09/03/2012: Taranto, 60 anni, commerciante trovato impiccato.
10/03/2012: Torino, 59 anni, muratore si da fuoco.
14/03/2012: Trieste, 40 anni, appena disoccupato si da fuoco.
15/03/2012: Lucca, 37 anni, infermiera ingerisce acido.
21/03/2012: Lecce, 29 anni, artigiano si impicca.
21/03/2012: Cosenza, 47 anni, disoccupato si spara.
23/03/2012: Pescara, 44 anni, imprenditore si impicca.
27/03/2012: Trani: 49 anni, imbianchino disoccupato si getta dalla finestra.
28/03/2012: Bologna: 58 anni, si dà fuoco davanti all'Agenzia delle entrate.
29/03/2012: Verona, 27 anni, operaio si da fuoco.
01/04/2012: Sondrio: 57 anni, perde lavoro, cammina sui binari, salvato in tempo.
02/04/2012: Roma: 57 anni, corniciaio, si impicca.
03/04/2012: Catania, 58 anni, imprenditore si spara.
03/04/2012: Gela,78 anni pensionata si getta dalla finestra, riduzione della pensione
03/04/2012: Roma, 59 anni, imprenditore, si spara con un fucile.
04/04/2012 Milano, 51 anni, disoccupato si impicca.
04/04/2012 Roma Imprenditore si spara al petto col fucile. La sua azienda stava fallendo.

Difficile dire di chi sia la colpa perchè probabilmente ognuno ha la sua parte di responsabilità, cominciando da quelle maggiori di chi sta più in alto.
Perciò chiediamo perdono al Signore per i politici che hanno governato male e per quelli che continuano a farlo, ma preghiamo anche per tutti coloro che hanno speculato, rubato, sfruttato, omesso di dare e di fare quanto era nel loro dovere.
E soprattutto chiediamo al Signore la grazia di poter uscire da queste situazioni, aiutandoci innanzitutto a CONVERTIRCI, perchè è solo dalla conversione del nostro cuore che può ripartire una condizione migliore per noi e per gli altri.
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17/04/2012 12:09
 
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Il nostro futuro in pericolo?
Posted: 15 Apr 2012 05:59 AM PDT
Gli uomini non sopportano troppa realtà, diceva Thomas S. Eliot. In effetti siamo già così angosciati per lo spread, in ansia per la recessione, la disoccupazione, l’aumento delle tasse, il crollo del consumi, il debito pubblico, la crisi dell’euro, il fantasma del default dell’Italia, che non ci siamo accorti – e non ci vogliamo accorgere – di un pericolo ancora più mostruoso che incombe sulle nostre teste: un conflitto nucleare in Medio Oriente fra Iran e Israele. Con tutto quel che ne seguirebbe.

Proprio in questo fine settimana riprendono a Istanbul le trattative fra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (con l’aggiunta della Germania) sul “potenziale nucleare” del regime degli ayatollah.

La crisi siriana – paradossalmente – ha rafforzato la posizione iraniana, quindi ha accresciuto i pericoli.

Tanto che – come scriveva ieri Arrigo Levi sul Corriere della sera – “il mondo intero si sta ponendo con grande senso di urgenza questi interrogativi”, cioè “quanto è probabile un attacco nucleare iraniano a Israele per ‘eliminare dalla faccia della terra’ lo Stato ebraico” oppure se “dobbiamo aspettarci un attacco preventivo di Israele all’Iran”.

Non che in Italia non se ne parli. Del resto i media internazionali da mesi avvertono dell’avvicinarsi del botto e in Israele da tempo fanno continue esercitazioni – nei luoghi pubblici e nelle case – simulando l’eventualità di un attacco atomico.

Ma noi – comprensibilmente – siamo così distratti dai nostri guai, così sopraffatti dalle nostre ansie presenti, che navighiamo a vista senza guardare cosa succede fuori dai confini.

Un po’ per la nostra tradizionale lontananza dalle vicende internazionali, un po’ perché negli ultimi sessant’anni il mondo è stato diverse volte sospeso sul baratro nucleare e poi tutto si è sistemato all’ultimo momento.

Eppure, a causa della crisi economica in Italia e nel mondo, in un modo o nell’altro la paura di trovarci di fronte a un crollo, alla fine di un mondo (se non proprio alla fine del mondo), è dilagante, rappresenta veramente lo spirito dei tempi. La stessa “moda” delle (fasulle) profezie Maya ne è un sintomo.

Fa pensare anche, in questi giorni fa, l’insistente (esagerata) rievocazione, su giornali e tivù, della tragedia del Titanic. Credo che in altri momenti della nostra storia recente quell’evento così lontano nel tempo non avrebbe riscosso tanto interesse.

Se oggi rievocare l’enorme transatlantico che si va a schiantare e sprofonda nell’oceano esercita sul nostro immaginario un tale potere ipnotico è proprio perché, dentro qualche zona oscura della nostra coscienza, noi temiamo che quei poveretti siamo noi, che proprio quella sia la raffigurazione del presente: una società opulenta che di colpo – dalla festa e dai piaceri del lusso – sprofonda nella tragedia più orribile.

E’ questa la cupa prospettiva che ci aspetta, appena superato il Duemila? Non lo so.

Ma di certo questa sensazione della fine imminente, che curiosamente ci fu anche mille anni fa (la psicosi della fine del mondo infatti non dilagò alla vigilia dell’anno Mille, ma subito dopo), non è basata su fobie irrazionali, ma affonda le sue radici sull’analisi razionale della situazione.

Per quanto tendiamo a dimenticarlo il mondo – oltre ad essere investito da una crisi economica senza precedenti – è seduto su un’autentica polveriera, capace di distruggere l’umanità una decina di volte.

E sappiamo che ci sono anche regimi e forze capaci di accendere micce o di scatenare scontri incontrollabili… Uno dei rischi d’altronde è pure l’uso di ordigni nucleari da parte del terrorismo internazionale.

La situazione è così grave che anche dal pulpito più nobile, qual è la Cattedra di Pietro, da anni lanciano l’allarme. Sia il papa attuale che il predecessore hanno avvertito l’umanità.

Benedetto XVI, da attentissimo interprete dei segni dei tempi, ha anche esplicitamente espresso il suo timore di una “fine”. Lo ha fatto parlando al corpo diplomatico alcuni mesi fa con una frasetta che è passata inosservata, ma che pesa come un macigno, soprattutto considerata l’autorevolezza e l’abituale pacatezza di chi l’ha pronunciata.

Il Papa ha detto: “Il nostro futuro e il destino del nostro pianeta sono in pericolo”. Parole testuali pronunciate pochi mesi fa. E il successivo 13 maggio, a Fatima, durante l’omelia ha esplicitato questo drammatico scenario: “L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce a interromperlo…”.

Quando poi gli sono stati riproposti questi pensieri dal giornalista Peter Seewald, nel recente libro intervista “Luce del mondo”, il Santo Padre ha aggiunto: “senza dubbio ci sono dei segni che ci spaventano e che inquietano”.

Ha inquadrato infatti le minacce belliche nella generale crisi morale ed esistenziale del mondo.

Di fronte a una voce così autorevole che paventa esiti apocalittici della storia mondiale bisogna riflettere seriamente. Bisogna pensare a un cambiamento personale e collettivo.

Il Papa accenna infatti anche a “segni che danno speranza”. Ma oggi la stessa percezione della catastrofe rischia di essere paralizzante e di moltiplicare gli effetti negativi.

Lo vediamo nell’avvitamento su se stessa delle crisi economica, anche italiana, dove le misure anticrisi producono esse stesse nuova crisi e non si vede chi riesca a invertire la rotta e innescare un circolo virtuoso di crescita.

Le rovine hanno un potere ipnotico, come documenta la poesia di Rutilio Namaziano di fronte al crollo e la devastazione del millenario impero romano.

Allora furono i monaci che sulle rovine ricominciarono a costruire, salvando la grande civiltà che si stava perdendo. Avendo gli occhi e il cuore alla Città di Dio, seppero ricostruire la città degli uomini.

Ci vuole un nuovo san Benedetto. Ci vogliono nuovi monaci. Tanto più necessari se dovesse scoppiare il grande botto e se le rovine fossero anche materiali, oltreché economiche, morali e spirituali.

Antonio Socci
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03/05/2012 11:48
 
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"Quanti sprechi, quanti soldi sperperati senza senso", si lamenta giustamente Monsignor Francesco Cuccarese, arcivescovo emerito di Pescara. Eccellenza, mons. Mariano Crociata, segretario della Cei, in relazione a fatti poco onorevoli della vita politica italiana (ruberie varie) ha parlato di scandalo: "lo ribadisco. In Italia forse in un lontano passato si esagerava nella parsimonia, oggi nello sperpero e basti vedere la sanità, un vero carrozzone di soldi buttati senza criterio". Da che cosa dipende questa situazione? "dalla poca conoscenza e dallo scarso rispetto del bene comune e al contrario dall'idea viziata che ciascuno anche in danno della collettività possa fare quello che vuole. Molti pensano solo ai propri interessi, al tornaconto personale e siamo ridotti in questo modo, dobbiamo davvero meditare e da questa situazione venire fuori, anche se non sarà facile". Politici che rubano, o malversano, che idea le danno? "senza puntare il dito contro nessuno nel particolare, ritengo di focalizzare il tema sul generale. La Chiesa non giudica il peccatore, ma il peccato. Chi malversa soldi pubblici, ruba agli altri, commette un furto ed è contro i comandamenti, immorale e illecito".

Mons. Crociata ha parlato di scandalo, ritiene che abbia ragione ad usare una parola tanto incisiva e forse pesante?

"visto quello che sta accadendo, credo che abbia detto bene. Siamo alla scandalo, inteso come pietra di inciampo e contro testimonianza. A questi signori della politica, non tutti, sarebbe bello dire: restituite il maltolto e ritiratevi della vita politica dove avete già fatto abbastanza danni".

Che cosa fare?

"indubbiamente, oggi cavalcare la tigre della protesta è facile, ma ci vuole anche la fase della proposta. E una proposta seria è quella di ricondurre la politica al rispetto del bene comune al di sopra di quello individuale".
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09/05/2012 07:04
 
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I VESCOVI BOLIVIANI CONTRO LA DEFORESTAZIONE E LE COLTIVAZIONI DI COCA

«La coltivazione e il disboscamento devono cessare immediatamente» è la condanna della Conferenza episcopale boliviana alle piantagioni di coca e alla dilagante deforestazione nel Paese sudamericano. Nei giorni scorsi una delegazione internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre in visita in Bolivia ha incontrato l’arcivescovo coadiutore di Santa Cruz de la Sierra, monsignor Sergio Alfredo Gualberti. Nelle nazioni andine la coltivazione della coca è soggetta a restrizioni. Ma da alcuni anni il presidente boliviano Evo Morales – in passato uno dei maggiori coltivatori della pianta da cui si ricava la cocaina – caldeggia l’espansione delle piantagioni. Rieletto nel dicembre del 2009, l’ex “cocalero” legato a Hugo Chavez ha portato avanti i suoi piani, incurante delle accuse provenienti sia dalla comunità internazionale che dal mondo cattolico. Le critiche non hanno di certo favorito la distensione dei rapporti tra l’episcopato ed il governo boliviano, incrinatisi già nel 2009 con la promulgazione di una nuova Costituzione che ha privato il cattolicesimo dello status di religione ufficiale e fissato confini più netti tra Stato e Chiesa.

Il presule nato a Clusone ha riferito ad ACS che Morales è in procinto di approvare nuovi disboscamenti per costruire un’autostrada nel cuore di una riserva naturale. «La strada arriverebbe fino in Brasile, distruggendo gran parte dell’Isiboro Secure National Park: una regione riconosciuta ufficialmente territorio indigeno». L’inevitabile costruzione di strutture lungo il tracciato autostradale, ha spiegato monsignor Gualberti, favorirebbe poi ulteriori deforestazioni e distruzioni ambientali. «Ecco perché noi vescovi boliviani abbiamo voluto scrivere una lettera pastorale in difesa dell’ambiente, della giustizia e dello sviluppo».

Il testo, intitolato «L’universo, un dono di Dio per la vita», denuncia inoltre la grave «perdita di valori spirituali e umani e di quei principi etici e morali che sono stati e sono parte integrante della nostra identità». Nonostante oltre i tre quarti dei dieci milioni di boliviani siano cattolici, nel Paese la pratica della fede va affievolendosi. L’impegno della Chiesa è quindi volto a rafforzare l’opera di evangelizzazione. «Intensificare la pastorale e promuovere la formazione di nuovi catechisti e seminaristi sono oggi le nostre priorità».

Priorità sostenute da Aiuto alla Chiesa che Soffre che nel 2010 ha donato alla Chiesa in Bolivia oltre 350mila euro. Tra i progetti finanziati: il XXIX Incontro nazionale e internazionale della Gioventù boliviana, la formazione di diversi seminaristi e novizie, la costruzione di alcuni locali per la parrocchia di Nostra Signora della Mercede nella diocesi di Potosi ed il restauro del convento delle suore carmelitane di Cochabamba.

Marta Petrosillo

“Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), Fondazione di diritto pontificio fondata nel 1947 da padre Werenfried van Straaten, si contraddistingue come l’unica organizzazione che realizza progetti per sostenere la pastorale della Chiesa laddove essa è perseguitata o priva di mezzi per adempiere la sua missione. Nel 2010 ha raccolto oltre 65 milioni di dollari nei 17 Paesi dove è presente con Sedi Nazionali e ha realizzato oltre 5.500 progetti in 153 nazioni.  

Pontifex.Roma

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19/05/2012 09:50
 
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Pontifex.RomaLA DITTATURA DI MAMMONA

Crisi finanziaria,

tema quanto mai caldo dopo le notizie poco rassicuranti che arrivano dalla Grecia. Ne discutiamo con Monsignor Alessandro Plotti, vescovo emerito di Pisa. Eccellenza, lo stesso Papa Benedetto XVI, ad Arezzo nella sua omelia, ha invitato a cambiare stili di vita, che cosa intendeva dire? "il Papa, queste cose, perfettamente intonate alla dottrina sociale della Chiesa, le ribadisce da sempre ed oggi, ovviamente, lo fa con maggior forza, in un momento davvero pesante e difficile". Ma che cosa si intende per cambiare stili di vita? "penso che sia un messaggio diretto alle oligarchie finanziarie che dirigono il mondo. Il capitalismo finanziario è molto diverso dal sano capitalismo da impresa, qual capitalismo che sapeva rischiare in proprio, ma valorizzava l'elemento umano, il lavoro. La finanza, al contrario, rischia poco in proprio, basta un bottone per cambiare il volto di un mercato 
con risultanze spesso drammatiche. Ecco, bisogna cambiare questo volto del mercato, riportare regole di moralità e di etica, far capire che comunque, il capitale nella logica del profitto, non può stravolgere tutto. Al contrario, sembra che in questo mondo, abbia avuto la meglio la logica perversa di Mammona, dell'idolo denaro, mettendo Dio fuori dalla storia. Ci siamo inchinati alla dittatura del denaro e del profitto ad ogni costo".

Una cultura dell'individualismo:

"certo. Tutti attaccano la classe politica e risponde a verità che non brilla per trasparenza. Ma questo sistema dell'illecito, del voler arraffare, del cercare le vie corte, ha contagiato tutti, non solo i politici e bisogna saper tornare al sapore buono della legalità e dell'onestà".

Forse spendiamo anche troppo:

"è un lato connesso a quella visione del mondo consumista dettata dalla finanza. Se non hai il telefonino di ultima generazione, sei fuori. Dunque, per adeguarci, abbiamo vissuto e viviamo sopra le nostre possibilità generando debito. In più, esiste tanto spreco inutile".

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27/05/2012 23:42
 
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BRASILE: LA CONFERENZA EPISCOPALE ALZA LA VOCE SUL “GENOCIDIO” DEGLI INDIOS

Pontifex.RomaL’agenzia Fides riprende la nota di vescovi del paese che propone con forza la necessità della salvaguardia dei territori e dei diritti dei popoli indigeni. «E’ un vero e proprio genocidio». Come i gesuiti nel Seicento, ora sono i vescovi brasiliani a schierarsi dalla parte degli indios. Nel paese cattolico più popoloso del mondo, l’episcopato si mobilita per «difendere le popolazioni indigene e la loro terra». La Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB) ha inviato all’agenzia missionaria «Fides» una nota a salvaguardia dei territori e dei diritti dei popoli indigeni, dei Quilombolas, dei pescatori e di altri popoli tradizionali. Un impegno che richiama alla memoria la storica esperienza delle “reducciones” del Paraguay (1609-1769), gli insediamenti di indios guaraní promossi dai padri della Compagnia di Gesù nelle terre conquistate dal Portogallo e dalla Spagna, con il desiderio di salvaguardare la loro identità di persone e di ...

... vassalli della Corona. Gli indios, che vivevano in base ai loro antichi costumi, sulle montagne, in piccoli gruppi molto distanti tra loro, si riunirono per iniziativa dei gesuiti per formare degli insediamenti di circa 5.000 persone ciascuno. Molti ricorderanno le “reducciones” per via del film “Mission”, del regista Roland Joffé (1986), con Robert De Niro e Jeremy Irons».

Le “reducciones” hanno un contesto complesso che nel corso dell'esposizione viene analizzato in modo più dettagliato. Hanno a che vedere con l'“encomienda”, sistema colonizzatore che spesso poteva essere una schiavitù camuffata, e con il forte desiderio evangelizzatore di missionari e collaboratori che, nell'esercizio della loro missione, non sempre riuscirono a rispettare l'identità guaraní, ma riuscirono a difenderne la libertà e la dignità, perché in molte occasioni le “reducciones” furono l'unica via per salvaguardarle. Arrivarono a esistere 30 “reducciones” dei popoli guaraní, che si estendevano tra i fiumi Paranà e Uruguay, in un vasto territorio che comprendeva regioni che oggi fanno parte del Paraguay e anche dell'Argentina, del sud e del sud-est del Brasile, del sud-est della Bolivia e dell'Uruguay.

Le “reducciones” gesuitiche non si limitarono ai guaraní, perché ce ne furono anche di popoli come i moxos (1682) e i chiquitos (1691) della Bolivia, dei maynas (1637) di Ecuador e Perù e dell'Orinoco (1730) in Venezuela. Nella nota i vescovi brasiliani deplorano profondamente “il rinvio della procedura amministrativa della demarcazione”, come “l'invasione e lo sfruttamento delle terre dei popoli tradizionali”. Il testo richiama l'attenzione sulle "condizioni di discriminazione e sugli assassini di cui è vittima il popolo Guarani-Kaiowá, nel Mato Grosso do Sul". Secondo l’episcopato brasiliano si tratta di un "vero e proprio genocidio" che macchia l'immagine del Brasile come paese che difende i diritti umani. "Respingiamo con veemenza l'attacco scatenato dal gruppo ruralista e da altri segmenti del Congresso nazionale, ai diritti dei popoli indigeni, considerati nella nostra Costituzione, attraverso il progetto della modifica costituzionale, la PEC 215/2000", precisa la nota.

I vescovi si sono già espressi sul tema pochi giorni fa. Durante la conferenza stampa, il Presidente della Commissione Pastorale della Terra (Cpt), mons. Enemésio Lazzaris, vescovo di Balsas, ha dichiarato che grandi opere come la costruzione di dighe e degli impianti per lo sfruttamento delle risorse minerarie, hanno un grande impatto su queste comunità, e finiscono per sfrattarle dai loro territori. «Il territorio è più che la terra stessa, è un rapporto che si costruisce sul luogo in cui si vive, dove i loro antenati hanno vissuto, dove sono cresciuti e dove si formano le famiglie» ha sottolineato Mons. Lazzaris. Il presidente della commissione episcopale per l'Amazzonia, il cardinale Claudio Hummes, nel suo intervento ha detto che l'Amazzonia ha un ruolo specifico nel contesto mondiale, e per questo la popolazione locale dovrebbe essere sentita per prima su questioni che la coinvolgono direttamente. «Dovrebbero essere in grado di decidere cosa è importante per loro. Di solito non è così, le loro terre sono invase e loro vengono calpestati», ha detto il cardinale. Ci furono anche «reducciones» in Cile. Le Reducciones sono considerate un momento appassionante dell'impulso missionario, che ha generato quasi 160 anni (1609-1769) di una feconda evangelizzazione tra il popolo guaraní. La Compagnia di Gesù e la Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) di Madrid hanno lavorato insieme per mesi a una mostra sulle missioni gesuitiche. Migliaia di missionari nei secoli sono stati e sono inviati oltre Oceano dalla Santa Sede.

di Giacomo Galeazzi
Articolo tratto da Vatican Insider

Segnalazione di Silvio

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29/05/2012 12:19
 
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L’inspiegabile pace di una fragile roccia

Posted: 27 May 2012 09:16 AM PDT

Aveva iniziato il suo pontificato con un appello insolito e drammatico. Ricordo bene quella sua messa di insediamento, il 24 aprile 2005: ero lì, in piazza San Pietro, quando pronunciò, con la sua voce timida, queste terribili parole: “Pregate perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri

Tornano in mente specialmente oggi, quelle espressioni, di fronte alla tempesta che ha investito il Vaticano. Ero ovvio che Benedetto XVI sapesse bene di cosa parlava. E non avrebbe mai pronunciato una frase del genere se non fosse servita anche al popolo cristiano a capire cosa sarebbe accaduto.

Nel linguaggio tradizionale cristiano peraltro “i lupi” rappresentano non il nemico esterno, non la persecuzione del mondo, ma “il fumo di Satana” – come ebbe a dire Paolo VI – che si insinua nel Tempio di Dio, cioè il male che è dentro la comunità, in noi cristiani, e, quindi, anche (qualche maligno dice: soprattutto) dentro le mura leonine.

Ritengo che sarebbe profondamente ingiusto squalificare in toto la città vaticana come un covo di serpenti, corvi e lupi. Confesso di essermi sorpreso tante volte nel conoscere persone, importanti o no, che all’ombra di san Pietro vivono una fede luminosa, una carità fervente, una vita ascetica inimmaginabile.

Egualmente mi rifiuto di identificare la causa di tutta questa tempesta con il cameriere personale di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, che è stato “fermato” ieri dalla gendarmeria vaticana. Sia perché la presunzione d’innocenza vale anche per lui, sia perché tutti coloro che lo conoscono lo giudicano un uomo buono e devoto al papa, che non può aver commesso un simile tradimento.

Sia perché i documenti pubblicati da Gianluigi Nuzzi provengono non solo dalla corrispondenza del Papa, ma anche da altri uffici vaticani che non sono certo accessibili al signor Gabriele.

Sia perché, infine, la fuoruscita di documenti è stata gestita con una strategia molto scaltra ed elaborata, da addetti ai lavori (o ai livori).

E lascia trasparire dietro – come scrive lo stesso Nuzzi – un certo numero di persone e un’evidente lotta per bande. Scatenatasi sulle macerie della macchina di governo vaticana che sembra francamente da rinnovare radicalmente.

D’altra parte non è un mistero per nessuno che all’interno del mondo ecclesiastico si scatenino talvolta logiche di potere che nulla hanno da invidiare a quelle del mondo.

Tanto è vero che è stato lo stesso Benedetto XVI a mettere in guardia i cardinali dell’ultimo concistoro dalla smania del potere ed è stato sempre lui – in più occasioni – a denunciare il clericalismo, il carrierismo e l’abuso del potere.

In un documento solenne come la sua “Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica” del 10 marzo 2009, con candore evangelico, ma anche con profondo coraggio e trasparenza, ha scritto questo terribile passo:

“Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: ‘Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!’ ”.

Dopo questa scioccante citazione ha aggiunto:

“Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo ‘mordere e divorare’ esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.

È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?”.

Pur con questa chiara e desolante coscienza della realtà, ieri, dalle mura vaticane, è emerso lo stato d’animo del Papa: “addolorato e colpito”. Sono parole tipiche della personalità di Joseph Ratzinger i cui rapporti umani sono improntati sempre a leale sincerità e disarmante candore.

Ho avuto il privilegio di poter trascorrere, in diverse occasioni, del tempo con lui, quando non era ancora papa e fuori da circostanze ufficiali. Nell’ultima, era l’ottobre 2004, sei mesi prima della sua elezione, siamo stati due giorni sulle montagne bellunesi.

Eravamo ospiti di un centro culturale cattolico che, insieme al cardinale, mi aveva invitato a presentare il suo libro “Fede, verità, tolleranza” (Cantagalli).

Ho potuto vederlo nella vita quotidiana, in un contesto familiare, ne ho studiato i gesti, le espressioni e ho toccato con mano la sua sorprendente affabilità, un’umanità plasmata dallo spirito evangelico.

Pur essendo un grande teologo, una delle menti più lucide della sua epoca e pur avendo un ruolo così alto nella Chiesa universale, sorprendeva tutti con la sua semplicità e la sua timida gentilezza.

L’ho visto ogni volta, dopo la colazione del mattino o la cena, bussare alla porta della cucina per ringraziare personalmente, una ad una, le donne che, là dietro, avevano preparato i pasti.

Ricordo la sua gioia – di artista o di fanciullo – nel camminare su un sentiero panoramico in montagna, davanti a tutta la magnificenza delle Dolomiti, e il suo immediato moto di tenerezza per un gattino comparso nel cortile.

Un uomo così, mi dissi, è come indifeso di fronte alla naturale malizia degli uomini. Perché immediatamente aperto alla fiducia. E’ dunque comprensibile il suo dolore per quello che sta accadendo.

Tuttavia papa Ratzinger è anche un vero sapiente, da tutti i suoi gesti e le sue parole traspare la sapienza che viene dall’alto.

In anni lontani, durante una conversazione in cui erano emersi tutti i veleni e le minacce che stavano facendo oscillare paurosamente la barca di Pietro, concluse con disarmante certezza che – in ogni caso – è il Signore stesso che guida la storia e porterà lui in salvo la sua Chiesa.

Ieri lo ha ribadito davanti a 50 mila aderenti del Rinnovamento nello Spirito: “il vento scuote la casa di Dio, ma la casa costruita sulla roccia non cade”. La “roccia” è Cristo. E ciò che il Papa ha chiesto è di testimoniare “la gioia” della sua “attrazione” e della sua amicizia.

Per papa Ratzinger la “vittoria” della Chiesa non è una vittoria mondana, non è un successo legato ai criteri terreni o alle istituzioni vaticane. Ma l’evidenza che la compagnia di Gesù vince il male, il dolore e la morte.

Una volta lo ha spiegato con un’immagine sorprendente e meravigliosa:

“Le vie di Dio sono diverse: il suo successo è la croce…non è la Chiesa di chi ha avuto successo ad impressionarci, la Chiesa dei papi o dei signori del mondo, ma è la Chiesa dei sofferenti che ci porta e credere, è rimasta durevole, ci dà speranza. Essa è ancora oggi segno del fatto che Dio esiste e che l’uomo non è solo un fallimento, ma può essere salvato”. 

In questo senso non ha torto lo storico cattolico Franco Cardini che ha affermato: “Lo Stato Città del Vaticano non è la Chiesa. Non bisogna gridare al Cristianesimo offeso e tradito”.

Infatti lo stato Città del Vaticano e pure la Curia sono istituzioni umane, storiche, che potrebbero anche non esserci più, come non c’erano nei primi secoli.

Ma la Chiesa, dietro a Pietro, non crolla, è “la casa costruita sulla roccia”, che rimane fino alla fine dei tempi. E scaturisce dal dono dello Spirito Santo, dai sacramenti e fiorisce nella vita e nei cuori, nella mistica unità dei cristiani. La Chiesa è il luogo della misericordia e della salvezza. Per tutti. Il luogo dei miracoli.

 Antonio Socci

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05/06/2012 00:38
 
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MIRACOLO A MILANO…

Posted: 03 Jun 2012 01:27 AM PDT

Tutto sembra crollare, l’economia, l’Europa, perfino le case, i capannoni. Ma soprattutto crolla la speranza e si abbattono gli animi.

Eppure nel mare della desolazione e dello scoraggiamento generale, c’è ancora una voce, una voce di padre che spalanca i cuori alla grande avventura della vita, alla speranza, alla costruzione del bene e della bellezza per tutti.

Quando ieri, Benedetto XVI a Milano ha detto ai giovani “cari ragazzi, vi dico con forza, tendete ad alti ideali, siate santi”, mi si sono affollate nella mente tante immagini e tanti ricordi.

Ricordi di secoli, di quante volte la nostra terra (con il nostro continente) è stata ricostruita proprio dai santi, a cominciare dai tempi della grande devastazione seguita alle invasioni barbariche, quando i monaci hanno riportato la vita fra le tenebre e le rovine.

Fino agli anni terribili della Seconda guerra mondiale, quando – nella nuova barbarie (e con l’Italia diventata campo di battaglia, lasciata allo sbaraglio) – solo la Chiesa è rimasta a proteggere il popolo. E poi dalla fede della nostra gente è venuta l’energia per ricostruire.

Soprattutto oggi, con la crisi generale e i crolli materiali, il nostro popolo ha bisogno di ritrovare la sua Casa, il luogo dove Dio abita con gli uomini, dove si impara il senso dell’esistenza, del lavoro, dell’amare, del costruire, del soffrire e del gioire, il luogo della misericordia e della speranza.

Ma allo smarrimento generale, stavolta, si aggiunge anche qualcosa che non era previsto e che ha moltiplicato il disorientamento e la sfiducia: pure la casa di Dio scricchiola paurosamente.

Quasi come le chiese emiliane crollate. Un terremoto morale che lascia senza parole.

E non tanto (o non solo) per le lotte, gli errori e le divisioni di Curia che emergono dai documenti pubblicati nel libro di Gianluigi Nuzzi (che un noto cardinale ha detto utile conoscere), ma anche per la reazione spropositata ed eccessivamente muscolare della Curia stessa.

Che prima ha dimostrato di essere incapace di governarsi e controllarsi e poi – scappati i buoi – ha esagerato il dramma facendo una straordinaria campagna pubblicitaria al libro di Nuzzi e rischiando di far passare il Vaticano per un posto di gente che si scanna e la Chiesa per un’istituzione oscurantista, intollerante e retriva.

Un cardinale, uno dei più anziani porporati, ha dichiarato di non ritenere tutta questa vicenda un dramma per la Chiesa. Ha ragione. Perché sì, è vero che da quelle carte alcuni curiali fanno una pessima figura, ma i curiali non sono la Chiesa e le loro scartoffie non sono la tragedia della Chiesa.

La tragedia per la Chiesa è ben altro. E’ il fatto che – come ha detto il Papa – Dio oggi è il grande sconosciuto nelle terre d’Europa. E le genti che brancolano nel buio alla ricerca del Salvatore non riescono a incontrarlo e riconoscerlo.

Per questo Benedetto XVI ha voluto l’ “Anno della fede” che inizierà l’11 ottobre prossimo. E’ un appello alla conversione del mondo per ritrovare la speranza ed evitare il baratro a cui ci stiamo avvicinando.

Per quanto riguarda gli uomini di Curia devono anch’essi decidere, come tutti noi, se convertirsi o no. Se aiutare la missione di Pietro o affaticarla, appesantirla, ostacolarla.

Anche fare umilmente un passo indietro può essere un gesto saggio di amore alla Chiesa. Specie quando si sono fatti danni.

Perché certo da posizioni  di responsabilità dentro la Chiesa o la Curia o la Città del Vaticano si può fare molto del bene, ma anche molto del male. Amplificando o l’uno o l’altro.

La terribile frase che segue – citata da Gianluigi Nuzzi nel suo libro – è di Joseph Ratzingere risale al 1977:

“La Chiesa sta divenendo per molti l’ostacolo principale alla fede. Non riescono a vedere in essa altro che l’ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo”.

E’ un giudizio tremendo. E’ ovvio che l’allora cardinale Ratzinger, scrivendo queste parole, non condivideva l’idea che la Chiesa fosse questo, cioè “l’ostacolo principale alla fede”.

Ma è anche altrettanto evidente che sapeva quanto la Curia, il mondo ecclesiastico, l’apparato clericale (che non sono la Chiesa), anziché aiutare la missione salvifica della Chiesa, possono essere un ostacolo, perfino devastante.

Quante volte – per esempio – gli ecclesiastici hanno perseguitato quegli uomini di Dio che poi la Chiesa ha proclamato santi? Anche in tempi recenti. I danni sono incalcolabili nell’ordine terreno e in quello soprannaturale.

E’ inevitabile temere che possa essere così anche oggi. Ciononostante, anche oggi la grande, misteriosa presenza di Cristo continua ad affascinare e a raggiungere la vita di tanti.

Nelle forme che tutti noi conosciamo, ma sempre sorprendenti: splendide e semplici comunità cristiane dove fiorisce una vita nuova, preti e missionari meravigliosi, suore che portano la tenerezza materna della Madonna nel mondo, tanti martiri (semplici fedeli, religiosi e vescovi), poi un fiume di carità che abbraccia e lenisce tutte le ferite dell’umanità, tante famiglie semplici e buone che vivono l’eroismo dell’amore e del sacrificio nella vita quotidiana, un esercito di ammalati che offrono la loro sofferenza per il bene e la salvezza dell’umanità, milioni di giovani che vivono la gioia dell’amicizia di Gesù e scommettono la loro vita per Lui.

Questa è la Chiesa. E ieri, mentre il buon vecchio padre, successore di Pietro, a Milano, parlava ai giovani esortandoli a questi grandi ideali, qualcuno – dentro il suo cuore – cantava la bellissima canzone cristiana della Bay Ridge Band, “My Father sings to me”. Che dice così:

“Nel mondo c’è una voce

e canta con una missione.

Nella mia vita c’è una scelta

e io ho scelto di ascoltare

il suono della vita e della libertà,

un grido forte, insistente.

Nel mondo c’è Qualcuno

che mi chiede di chiederGli ‘Perché?’.

Mio Padre mi canta con giubilo infinito.

Lui canta la mia esistenza.

Lui canta la mia salvezza.

Una canzone che è stata scritta in armonia col desiderio”.

                         Da qui tutto comincia e sempre ricomincia.

 

Antonio Socci

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